3 fattori di rischio per il 2026 che dovresti conoscere se investi

Tommaso Scarpellini

1 Dicembre 2025 - 07:52

Un equilibrio fragile che sembra stabile ma potrebbe cambiare all’improvviso? Potrebbe essere. Ecco 3 elementi che potrebbero cambiare a breve.

3 fattori di rischio per il 2026 che dovresti conoscere se investi

Cosa succede quando il mercato costruisce le sue certezze su fondamenta che, in realtà, non sono poi così solide? Come cambiano le valutazioni se ogni driver che ha sostenuto il ciclo rialzista degli ultimi anni inizia a scricchiolare? E soprattutto, quanto è preparato l’investitore medio a uno scenario in cui i tre pilastri fondamentali della stabilità finanziaria, potrebbero iniziare a dare segnali di stress più intensi?
Il 2026 potrebbe non essere un anno “difficile” in senso catastrofico, ma rischia di essere un anno “diverso”. E quando il mercato non è preparato al diverso, è lì che nasce la volatilità.
Ecco 3 preoccupazioni che meritano un’attenzione particolare

1) Problemi di liquidità monetaria

Il primo nodo riguarda la politica monetaria e la dinamica della liquidità in un contesto macro dove la Federal Reserve potrebbe trovarsi, letteralmente, incastrata tra due fuochi. Da una parte la necessità di assicurare condizioni finanziarie accomodanti per evitare un rallentamento più marcato dell’economia, dall’altra un’inflazione che fatica a scendere sotto il livello critico del 3%, soglia che rende politicamente ed economicamente rischioso qualsiasi taglio aggressivo ai tassi.

Il punto centrale è semplice. Per anni i mercati hanno costruito i loro modelli DCF e le loro aspettative sui margini partendo da un presupposto: prima o poi i tassi torneranno su livelli più “normali”. Ma cosa succede se il nuovo normale sono Fed Funds al 4 o 5% per un periodo superiore a quello previsto Un’inflazione strutturalmente più alta non è solo un problema di prezzi, ma un problema di policy.

Le scelte economiche dell’amministrazione Trump, come la reintroduzione dei dazi, l’espansione del deficit e una politica industriale fortemente pro-ciclica, contribuiscono a creare pressioni inflattive che potrebbero trascinarsi nel 2026. Se l’inflazione resta sopra il 3%, la Fed difficilmente giustificherà tagli significativi. E se i tagli non arrivano, si inceppa un meccanismo chiave: il repricing dei multipli.
In un contesto del genere, gli utili attesi rischiano di non allinearsi alle valutazioni.

Il mercato ha incorporato forward earnings troppo ottimisti rispetto al quadro macro. Tutto questo porta a una conseguenza tanto tecnica quanto intuitiva: i P/E potrebbero risultare semplicemente troppo alti rispetto a una traiettoria degli utili che rallenta, mentre il costo del capitale resta rigido. A livello sistemico, significa meno liquidità, meno leverage, più selettività e più volatilità.

2) La riduzione dei buyback è più importante di quanto sembri

Per oltre dieci anni, i buyback hanno rappresentato uno dei principali driver di crescita dell’EPS. Non è un’opinione, è matematica finanziaria. Riduci il numero di azioni, aumenti l’EPS anche se gli utili non crescono di pari passo. È stato uno dei carburanti nascosti del bull market.

Il problema è che questo meccanismo si sta inceppando. E non per volontà, ma per necessità.
Il 2026 potrebbe essere l’anno in cui il capex, soprattutto nel settore tech, raggiunge livelli senza precedenti. Non per espansione generica, ma per un’infrastruttura AI che richiede data center, server proprietari, supply chain interne e decine di miliardi in investimenti cumulati.

Meta sta aumentando drasticamente il budget per infrastrutture AI. Alphabet spinge sull’hardware proprietario. Oracle sta finanziando la costruzione del più grande ciclo di espansione infrastrutturale della sua storia recente.

La conseguenza è una sola: il capex non è più interamente coperto dal free cash flow. Il risultato è una nuova stagione di emissioni di debito. Amazon, Meta e Oracle hanno già aperto la strada. E insieme alle emissioni torna un vecchio attore: gli SPV, veicoli spesso utilizzati per separare i rischi e finanziare progetti ad alta intensità di capitale.

Per l’investitore questo ha tre effetti:

  • Crescita degli utili meno brillante, perché i buyback rallentano e non compensano più la diluizione naturale.
  • Stock grant e opzioni dei dipendenti diventano più diluitive quando i buyback non assorbono il nuovo flottante.
  • Il costo del debito aumenta il peso degli interessi, erodendo ulteriormente gli utili netti.

L’EPS diventa meno sostenuto, meno drogato e più legato alla performance reale dell’azienda. Questo può essere sano nel lungo periodo, ma nel breve crea pressione sulle valutazioni, soprattutto nei settori più sensibili ai multipli.

3) Private credit: il gigante da 1.7 trilioni che inizia a scricchiolare

Il private credit è passato dall’essere una nicchia a diventare uno dei pilastri del finanziamento globale. Con oltre 1.7 trilioni di dollari di asset, oggi è un segmento sistemico. E come ogni segmento che cresce troppo rapidamente, porta con sé fragilità nascoste. Il 2026 potrebbe essere l’anno in cui emergono in superficie.

I segnali di stress stanno aumentando in modo visibile. Non parliamo più di default marginali, ma di casi di dimensioni significative. TriColor Holdings, e First Brands, big player nel settore dei componenti automotive, è arrivata a un default da 12 miliardi.

Quindi?

Il 2026 non è un anno da temere, ma da comprendere. Il mercato può convivere con tassi più alti, con buyback più deboli e perfino con un private credit più volatile. Non è questo il punto. Il punto è che per la prima volta da molti anni, tre variabili fondamentali potrebbero muoversi nella stessa direzione, e non è una direzione particolarmente favorevole.

Non serve farsi prendere dal panico, né costruire scenari catastrofici. Serve consapevolezza.
La volatilità non è un nemico, è un messaggero. E quando il mercato cambia linguaggio, la cosa più intelligente che si possa fare è ascoltare.

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