Stipendi non pagati, nuove regole per il calcolo della prescrizione. E scoppia la polemica.
Ci sono importanti novità per i lavoratori: cambiano le regole per ottenere gli stipendi arretrati non pagati.
Con l’emendamento Pogliese al decreto ex Ilva, approvato dal governo Meloni nel luglio 2025, i lavoratori avranno infatti solo 5 anni di tempo per recuperare i crediti da lavoro non riscossi, come possono essere straordinari, tredicesime o differenze di retribuzione, con la prescrizione che inizierà a decorrere mentre il contratto di lavoro è ancora in corso, non più al termine del rapporto.
Una modifica normativa che sta facendo discutere: da un lato, il presidente della commissione Lavoro della Camera, Walter Rizzetto (FdI), parla di un provvedimento che garantisce certezza giuridica e tutela chi rispetta i contratti; dall’altro, sindacati e opposizione, i quali denunciano un vero e proprio condono per le imprese e una stretta per i lavoratori, che rischiano di perdere retribuzioni pregresse e tutele fondamentali.
Dov’è la verità? A tal proposito, in questo articolo spieghiamo cosa cambia con la nuova legge sulla prescrizione dei crediti da lavoro e quali sono le conseguenze per i lavoratori.
Come cambiano le regole sulla prescrizione dei crediti da lavoro
L’emendamento in questione, presentato da Fratelli d’Italia e a firma del senatore Salvo Pogliese, è stato inserito nel decreto Crisi industriali (noto perlopiù come ex decreto Ilva), introduce una modifica che incide profondamente sul diritto del lavoro.
Nel dettaglio, la norma stabilisce che i crediti da lavoro si prescrivono in 5 anni anche in costanza di rapporto di lavoro, cioè mentre il dipendente è ancora in forza presso l’azienda.
Finora, invece, la regola, confermata da più sentenze della Cassazione, tra cui la n. 26246/2022, prevedeva che la prescrizione iniziasse solo dopo la cessazione del contratto, così da evitare che il lavoratore, temendo ritorsioni o licenziamenti, rinunciasse a far valere i propri diritti. Con la nuova norma, invece, il termine decorre subito.
E non solo: una volta che il lavoratore invia la diffida con una lettera scritta, ha solo 180 giorni per fare causa al datore di lavoro. Passato questo tempo, il diritto decade, senza possibilità di ottenere una conciliazione.
Va precisato però che le nuove regole non riguardano tutti. Il provvedimento, infatti, riguarda esclusivamente le imprese con più di 15 dipendenti, ovvero quelle per cui trovano applicazione le norme sui licenziamenti collettivi e sulle tutele previste dal Jobs Act. Nelle aziende più piccole, le regole restano invece invariate: la prescrizione decorre alla fine del rapporto.
Ma cosa cambia per i lavoratori? Le conseguenze più immediate si vedranno nei tribunali e nelle buste paga: da ora in poi, un lavoratore potrà reclamare le somme non versate solo entro 5 anni dal momento in cui la retribuzione avrebbe dovuto essere corrisposta, anche se il contratto è ancora attivo. Non sarà più possibile, come avveniva finora, far partire la prescrizione alla fine del rapporto, una garanzia fondamentale per chi temeva ritorsioni.
Questa modifica implica che, di fatto, i lavoratori dovranno decidere rapidamente se fare causa, anche a rischio del proprio posto visto che una volta inviata una diffida scritta al datore di lavoro avranno soltanto 180 giorni per agire legalmente, senza alcun obbligo di mediazione o tentativo di conciliazione.
A riguardo, sindacati e partiti di opposizione non hanno quindi alcun dubbio: approvando questa nuova disposizione si spalanca una porta alla sanatoria dell’evasione retributiva degli anni passati, dal momento che tutto ciò che non è stato versato fino al 2020 rischia di diventare irrecuperabile.
La difesa di Walter Rizzetto
A fronte delle polemiche, il presidente della commissione Lavoro della Camera, Walter Rizzetto, rivendica con fermezza la scelta compiuta dal governo. Secondo il deputato di Fratelli d’Italia, l’emendamento approvato non rappresenta un arretramento nei diritti dei lavoratori, bensì una riforma necessaria per garantire certezza giuridica e contrastare pratiche distorsive nel mercato del lavoro.
“La norma”, afferma Rizzetto, “colpisce e punisce le pratiche illecite con cui alcuni datori di lavoro pagano i dipendenti sulla base di contratti pirata o sotto la soglia di dignità. Al tempo stesso, protegge imprese e lavoratori onesti, quelli che si affidano a contratti collettivi rappresentativi e rispettosi dei minimi salariali”. Il presidente della commissione Lavoro ci tiene quindi a ribadire che la riforma è del tutto coerente con l’articolo 36 della Costituzione e segue la linea tracciata dalla giurisprudenza europea, offrendo al sistema regole “certe, chiare e trasparenti”.
Vengono dunque respinte le accuse secondo cui il governo Meloni avrebbe voluto limitare la possibilità di rivalsa dei lavoratori, sottolineando che la norma “non introduce penalizzazioni, ma mette ordine, chiarendo i tempi di decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto di lavoro, nei casi in cui valgono le tutele previste dalla legge per le imprese con più di 15 dipendenti”. L’intento, è solamente quello di “sostenere la magistratura nel contrasto all’illegalità”, garantendo al contempo stabilità e prevedibilità al tessuto produttivo nazionale.
© RIPRODUZIONE RISERVATA