Sapevi che l’azienda deve darti più soldi per non farti andare dalla concorrenza?

Simone Micocci

3 Ottobre 2024 - 16:19

Se il datore di lavoro non vuole che passi alla concorrenza deve riconoscerti un corrispettivo in busta paga (o pagato in un’unica soluzione).

Sapevi che l’azienda deve darti più soldi per non farti andare dalla concorrenza?

Ci sono aziende che vogliono limitare le possibilità che un lavoratore si dimetta per passare alla concorrenza, col rischio che svelino anche alcuni segreti e trucchi acquisiti durante la formazione aziendale.

Per questo motivo fanno firmare, contestualmente al contratto di lavoro, anche un patto di non concorrenza definendo i confini entro cui può muoversi un dipendente che sceglie di cambiare azienda. Come si può intuire dal nome, infatti, con questo patto si limitano le possibilità che un lavoratore passi alla concorrenza, per quanto questo vincolo non sia eterno ma circoscritto a un certo periodo.

Ci sono tuttavia delle regole che vanno seguite affinché un patto di non concorrenza non sia considerato nullo. Una delle più importanti è quella per cui il lavoratore deve beneficiare di una maggiorazione in busta paga per tutta la durata del patto (o in alternativa di un compenso una tantum).

Deve essere pagato di più, quindi, il lavoratore che si vuole vincolare al rispetto delle regole fissate nel patto, con il corrispettivo che non può essere simbolico ma ragionevole e pertanto commisurato alle limitazioni previste.

Cos’è e come deve essere un patto di non concorrenza

In genere un dipendente può dimettersi senza dover fornire una giustificazione al datore di lavoro, potendo chiedere la risoluzione anticipata del contratto anche per cambiare azienda.

E non ci sono neppure particolari restrizioni riguardo alla successiva assunzione: ognuno è infatti libero di essere assunto presso qualsiasi altro datore di lavoro, anche se diretto concorrente di quello precedente. Ed è anche naturale che possa succedere visto che è alle aziende operanti nello stesso settore che ci si rivolge per sfruttare appieno la professionalità acquisita.

Laddove un’azienda voglia difendersi da un tale scenario assicurandosi che i suoi migliori lavoratori non passino alla concorrenza, dovrà necessariamente ricorrere allo strumento in oggetto. Facendo firmare il patto di non concorrenza, infatti, entrambe le parti accettano di rispettarne i termini.

Va considerato quindi al pari di qualsiasi altro contratto, solitamente stipulato in fase di assunzione (ma nulla vieta possa essere sottoscritto in un secondo momento, persino alla cessazione del contratto).

A definire le condizioni affinché un patto di non concorrenza sia valido è l’articolo 2125 del Codice civile, dove ad esempio viene chiarito che l’accordo deve risultare da atto scritto. Inoltre, non è possibile prevedere un divieto generalizzato visto che in ogni caso il patto di non concorrenza non deve impedire al lavoratore di poter trovare un nuovo impiego.

L’accordo deve infatti prevedere dei limiti ragionevoli tanto per l’oggetto del divieto, quanto per il luogo e il tempo. Ad esempio, la normativa stabilisce che il vincolo indicato dal patto deve avere una durata di massimo 3 anni, con la possibilità di estenderlo a 5 anni per i soli dirigenti.

Non è comunque nullo un patto di non concorrenza che prevede un termine maggiore, fermo restando che per legge la validità sarà comunque ridotta fino al limite massimo suddetto.

Se ad esempio un patto di non concorrenza vieta di lavorare per un concorrente dell’azienda per un periodo di 10 anni, il lavoratore sarà obbligato a rispettare questo vincolo ma solo per 3 o al massimo 5 anni (se dirigente). Attenzione però perché anche questo limite deve soddisfare i principi di ragionevolezza: ad esempio, quando la durata del vincolo è superiore a quella del rapporto di lavoro, potrebbero comunque esserci gli estremi per annullare il patto.

Per quanto riguarda l’oggetto del patto di non concorrenza, qui le parti definiscono quale attività lavorativa il lavoratore non può svolgere per le aziende concorrenti. E come chiarito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 9790 del 2020, non è detto che le attività vincolate debbano necessariamente rientrare nelle mansioni svolte dal lavoratore nel corso dell’ultima esperienza lavorativa, in quanto può valere anche per quelle attività economiche che comunque sono concorrenti con quella esercitata dal datore di lavoro. Come detto sopra però la limitazione deve sempre essere ragionevole, in quanto al lavoratore non può essere impedito di svolgere qualunque tipo di attività.

Lo stesso discorso vale per quanto riguarda la definizione della zona entro cui si applica il patto di non concorrenza. Il divieto non può valere per tutto il mondo, ma appunto deve soddisfare i criteri di ragionevolezza richiesti dalla normativa.

L’azienda deve darti più soldi per non farti andare dalla concorrenza

C’è poi un ulteriore, fondamentale, elemento da cui dipende la validità del patto di non concorrenza. Sempre l’articolo 2125 del Codice Civile stabilisce che il patto è nullo se non è previsto un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro.

Anche nella definizione del corrispettivo è necessario soddisfare determinati principi. Fermo restando che è libera scelta delle parti valutare se disporre il pagamento una tantum (all’inizio o alla fine del periodo di non concorrenza) oppure prevedere un compenso fisso mensile da caricare direttamente in busta paga, è fondamentale che al lavoratore venga riconosciuta una quota minima commisurata al sacrificio imposto.

Nel dettaglio, la misura del compenso per il patto di non concorrenza deve essere commisurata alla retribuzione percepita, nonché al livello professionale e alla durata del vincolo. Solitamente la giurisprudenza si è orientata nel ritenere congruo un compenso minimo calcolato su un 20% o 30% della retribuzione annua lorda, con la possibilità di prevedere maggiorazioni nel caso in cui i confini della limitazione, tanto per oggetto quanto per luogo e tempo siano più ampi.

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