Cosa sono le pensioni d’oro e quante ce ne sono in Italia

Veronica Caliandro

26 Novembre 2025 - 12:46

Cosa sono le pensioni d’oro, chi ne ha diritto e soprattutto quante ce ne sono in Italia? Ecco tutto quello che c’è da sapere.

Cosa sono le pensioni d’oro e quante ce ne sono in Italia

Le pensioni d’oro finiscono spesso al centro del dibattito pubblico, soprattutto quando si parla di equità sociale e della sostenibilità del sistema previdenziale italiano. Non si tratta solo di numeri, bensì questi assegni possono apparire come simboli di privilegi per alcuni, mentre per altri sono il risultato di carriere lunghe e contributi versati nel tempo.

Ma cosa significa davvero pensione d’oro? Chi le percepisce e quanto incidono sul bilancio dello Stato oggi? Con dati aggiornati, normative vigenti e qualche esempio concreto, proviamo a fare chiarezza su un tema spesso citato dai media, ma raramente spiegato nei dettagli. L’obiettivo è capire chi beneficia di questi assegni, quanto pesano sul sistema pensionistico e quali strumenti esistono per regolare le pensioni più alte senza compromettere la stabilità complessiva del sistema.

Pensioni d’oro: cosa sono?

Le pensioni d’oro sono pensioni ben più alte della media. Non esiste un criterio univoco per stabilire se una pensione è d’oro o meno. Molti considerano “d’oro” le pensioni superiori ai 3 mila euro mensili, mentre altri ritengono che solo assegni molto più alti possano essere definiti tali. Si tratta soprattutto di pensioni che derivano da carriere lunghe, con redditi elevati, o da posizioni di vertice in ambito pubblico, quali Parlamento, magistratura, alte amministrazioni.

Negli ultimi anni le pensioni d’oro sono state spesso oggetto di misure di perequazione ridotta o contributi di solidarietà, per contenere la spesa pubblica e garantire un minimo equilibrio nel sistema previdenziale. In pratica è possibile considerare d’oro una pensione che eccede sensibilmente la media nazionale, pur senza una soglia precisa universalmente considerata valida.

Quanti sono i pensionati d’oro in Italia (e quanto costano)

Determinare il numero preciso dei pensionati d’oro in Italia non è semplice, perché l’Inps non pubblica dati dettagliati per le fasce più elevate degli assegni, come quelli superiori a 5 mila o 10 mila euro al mese. Tuttavia, i dati dell’Osservatorio Inps consentono di delineare un quadro generale del sistema e di comprendere - perlomeno in parte - l’incidenza di queste pensioni sulla spesa complessiva.

Al 1° gennaio 2025 risultano attive 17.986.149 pensioni, per una spesa annua complessiva di circa 253,9 miliardi di euro, di cui oltre 226 miliardi destinati a prestazioni previdenziali. Più della metà delle pensioni mensili, oltre il 53%, non supera i 750 euro, evidenziando come gli assegni molto elevati rappresentino solo una piccola parte dei trattamenti erogati.

Le informazioni disponibili, quindi, mostrano che le pensioni più alte sono numericamente molto limitate, ma rivestono un peso significativo sia economico sia simbolico. Ecco i dettagli più concreti.

Quante pensioni d’oro ci sono in Italia

Secondo gli ultimi dati disponibili, come abbiamo accennato, la grande maggioranza dei pensionati percepisce trattamenti modesti: oltre due terzi non superano i 2.000 euro al mese, mentre quasi due milioni di persone devono vivere con meno di 500 euro.
In questo contesto, i cosiddetti “pensionati d’oro” sopra i 5.000 euro mensili costituiscono una quota ridotta, pari a circa il 2,6% del totale.

Si tratta comunque di oltre 400.000 beneficiari, spesso legati a gestioni previdenziali particolari o ex casse professionali oggi confluite nell’Inps.

Tra i gruppi più rappresentati figurano ex dirigenti industriali, personale del settore telefonico, dipendenti delle compagnie aeree, ferrovieri e lavoratori di grandi aziende pubbliche come Enel o Telecom. Importi così elevati derivano per lo più da regimi retributivi o misti, che garantivano pensioni calcolate sulla base delle ultime e più alte retribuzioni, e non sull’intera storia contributiva.

Quanto costano le pensioni d’oro allo Stato?

Sebbene numericamente limitati, gli assegni più elevati esercitano un peso molto rilevante sulla spesa previdenziale complessiva.

Le pensioni d’oro assorbono infatti circa il 10% delle risorse impegnate ogni anno dall’Inps, una quota superiore a quella destinata ai pensionati con importi minimi. In termini assoluti, il loro costo supera i 34–35 miliardi di euro annui, una cifra che riflette non solo l’entità degli assegni, ma anche gli squilibri creati da alcune gestioni speciali ormai in deficit strutturale.

Molti di questi fondi, oggi inglobati nell’Inps, continuano a erogare pensioni ben più alte rispetto ai contributi effettivamente versati, spesso a causa di vecchi calcoli retributivi, età pensionabili più basse o prepensionamenti massicci che hanno trasferito i costi sulla collettività. A fronte di tali trattamenti particolarmente vantaggiosi, il sistema è sostenuto soprattutto dai lavoratori più giovani, che versano contributi in un regime contributivo puro e che, in prospettiva, potrebbero percepire pensioni molto più contenute rispetto a quelle attuali.

Pensioni d’oro, contributi e normative pendenti

Nel corso degli ultimi anni le cosiddette pensioni d’oro sono state più volte al centro del dibattito politico e legislativo, soprattutto in relazione all’esigenza di rendere più equo e sostenibile il sistema previdenziale. Tra gli interventi più rilevanti va ricordato il contributo di solidarietà introdotto dalla Legge di Stabilità 2014, attraverso la legge n. 147/2013, e applicato in via temporanea dal 2014 al 2016. Si trattava di un prelievo mirato sugli assegni pensionistici molto elevati, con aliquote progressive che potevano arrivare fino al 18%, calcolate in base al rapporto tra l’importo della pensione e determinate soglie legate al trattamento minimo Inps.

Questo meccanismo è stato ritenuto conforme alla Costituzione dalla Corte Costituzionale, che con la sentenza n. 173 del 13 luglio 2016 ha confermato la legittimità del prelievo. La Consulta ha chiarito che non si trattava di una nuova imposta, ma di un intervento solidaristico interno al sistema previdenziale, giustificato dal particolare contesto economico e dalla necessità di fronteggiare una fase definita di “crisi contingente e grave”.

Terminato il triennio 2014-2016, il contributo non è stato reintrodotto in forma analoga. Il legislatore ha preferito intervenire attraverso strumenti strutturali, in particolare modificando i criteri di perequazione automatica. Oggi le pensioni più elevate ricevono un adeguamento all’inflazione solo parziale, secondo fasce differenziate stabilite annualmente dalla legge, invece dell’indicizzazione piena applicata agli assegni più bassi.

A tal proposito, interesserà sapere che dal 1° gennaio 2026, stando alle anticipazioni sulla Legge di Bilancio 2026, entrerà in vigore un nuovo schema di rivalutazione. Le stime attuali prevedono un tasso provvisorio tra l’1,4% e l’1,7%. Salvo modifiche dell’ultimo minuto, l’adeguamento sarà applicato a scaglioni: le pensioni fino a quattro volte il minimo saranno rivalutate al 100%, quelle tra quattro e cinque volte al 90%, mentre oltre cinque volte il minimo la perequazione si fermerà al 75%. L’impatto complessivo di questa misura è valutato in circa 5 miliardi di euro a carico della finanza pubblica, sulla base delle proiezioni riportate da fonti governative e di stampa.

Per quanto riguarda le proposte di legge attualmente in discussione, non risultano iniziative significative volte a ripristinare un contributo di solidarietà strutturale simile a quello del 2014-2016. L’orientamento prevalente resta quello di intervenire attraverso meccanismi di perequazione modulata e adeguamenti automatici, piuttosto che mediante nuovi prelievi aggiuntivi sui trattamenti più elevati.

Argomenti

# INPS

Iscriviti a Money.it