Pensioni, addio alla minima. Ecco quando

Simone Micocci

15 Dicembre 2025 - 09:48

Pensioni minime, niente integrazione con il contributivo puro. Ma il governo dovrà pensare a una soluzione.

Pensioni, addio alla minima. Ecco quando

Sai che l’addio alla pensione minima è in realtà già scritto? Si parla spesso di pensione minima e di aumenti, ma pochi sanno che in prospettiva non esisterà più una soglia garantita per legge. Pertanto, il rischio è che in futuro alcuni pensionati si ritrovino a percepire assegni di poche centinaia di euro al mese.

Ma perché dell’addio alla pensione minima si discute così poco? Il motivo è duplice. Da un lato, oggi il numero di pensionati esclusi è ancora limitato; dall’altro, la data in cui la misura verrà definitivamente meno appare lontana. Questo contribuisce a far passare il problema in secondo piano.

A non avere diritto alla pensione minima sono infatti coloro la cui pensione è calcolata interamente con il sistema contributivo, cioè chi ha iniziato a versare contributi dopo il 31 dicembre 1996. L’integrazione al trattamento minimo, quella somma che consente di portare l’assegno fino alla soglia minima garantita, spetta esclusivamente a chi può vantare almeno un contributo settimanale accreditato prima del 31 dicembre 1995. Con il passare degli anni, quindi, la platea dei beneficiari è destinata a ridursi progressivamente.

Questa esclusione rappresenta un nodo che prima o poi i governi dovranno sciogliere. Il paradosso è evidente: proprio chi rientra interamente nel sistema contributivo, e dunque percepisce spesso un assegno più basso per effetto di regole più penalizzanti, non ha diritto ad alcuna integrazione. Una situazione che già oggi produce effetti distorsivi e penalizzanti, soprattutto nei casi in cui il lavoratore è costretto ad anticipare l’uscita dal lavoro, andando in pensione con pochi anni di contributi e un assegno insufficiente. Ed è per questo che, prima o poi, un intervento politico non potrà più essere rinviato.

Cos’è l’integrazione al trattamento minimo

L’integrazione al trattamento minimo è un meccanismo previsto dal sistema previdenziale italiano che consente di aumentare l’assegno di pensione quando l’importo mensile risulta troppo basso, portandolo fino alla soglia minima stabilita dalla legge.

In pratica, se la pensione percepita è inferiore a circa 600 euro al mese, è possibile ottenere un’integrazione che colmi la differenza, ma solo a precise condizioni. Da un lato conta la situazione economica del pensionato, perché l’aiuto è riconosciuto solo se i redditi complessivi, e non la sola pensione, rientrano entro determinati limiti; dall’altro lato è decisivo il profilo contributivo, poiché l’integrazione spetta esclusivamente a chi ha almeno un contributo versato entro il 31 dicembre 1995 e rientra quindi nel sistema retributivo o misto.

Nel 2025 l’importo della pensione minima è pari a 603,40 euro al mese, valore che può essere raggiunto integralmente o parzialmente in base ai redditi personali e, in alcuni casi, a quelli del coniuge. A questa soglia si aggiunge inoltre la rivalutazione straordinaria del 2,2%, che si riduce all’1,3% nel 2026, a favore dei pensionati con assegni inferiori al minimo di legge.

Addio al trattamento minimo, ecco da quando

Come spiegato nei paragrafi precedenti, l’addio al trattamento minimo non arriverà con una riforma esplicita, ma sarà l’effetto naturale del passare del tempo. L’integrazione al minimo, infatti, è riconosciuta solo a chi ha almeno un contributo versato prima del 31 dicembre 1995, mentre ne restano esclusi i pensionati con assegno calcolato interamente con il sistema contributivo.

Secondo le stime, intorno al 2040 la quasi totalità delle nuove pensioni sarà composta esclusivamente da contributi versati dopo il 1996: a quel punto non esisterà più una platea significativa di pensionati con diritto all’integrazione. In assenza di interventi correttivi, la pensione minima così come la conosciamo oggi è quindi destinata a scomparire, lasciando senza una soglia garantita proprio chi avrà carriere più discontinue e assegni più bassi.

Perché l’addio alla pensione minima è un problema

L’uscita di scena della pensione minima pone un problema rilevante perché il sistema contributivo, per sua natura, tende a produrre assegni più bassi rispetto a quelli calcolati con il retributivo o con il metodo misto. Nel contributivo l’importo della pensione dipende esclusivamente da quanto si è versato nel corso della vita lavorativa e dall’età di uscita, senza alcuna soglia di tutela garantita. Questo significa che carriere discontinue, periodi di lavoro povero o interruzioni prolungate si traducono automaticamente in pensioni molto contenute.

Il rischio maggiore riguarda chi arriva alla pensione con pochi anni di contributi. In questi casi l’assegno può risultare estremamente basso e, a differenza di quanto accade oggi per molti pensionati, non potrà essere integrato fino al minimo. Si pensi, ad esempio, a chi accede alla pensione di vecchiaia contributiva a 71 anni con soli 5 anni di versamenti: l’importo mensile può ridursi a poche centinaia di euro, senza alcuna possibilità di integrazione.

Lo stesso vale per chi, a causa di un incidente o di una malattia che ha comportato una perdita rilevante della capacità lavorativa, anche pari all’80%, è riuscito a maturare solo il requisito minimo contributivo, sempre pari a 5 anni. In assenza della pensione minima, queste persone rischiano di trovarsi con un assegno insufficiente a garantire un tenore di vita dignitoso, aprendo un problema che nel tempo diventerà sempre più diffuso.

Pensione minima, perché il governo dovrebbe estenderla

L’estensione della pensione minima anche ai contributivi puri è diventata un tema centrale dopo la sentenza n. 94/2025 della Corte Costituzionale, che ha eliminato il divieto di integrazione al minimo per la pensione di invalidità calcolata interamente con il contributivo. Una decisione che non riguarda tutte le pensioni, ma che mette comunque in discussione il principio introdotto dalla riforma Dini, secondo cui chi è nel contributivo puro non ha diritto ad alcuna soglia garantita.

La Consulta ha chiarito che l’integrazione al minimo serve a garantire mezzi adeguati alle esigenze di vita, come richiesto dall’articolo 38 della Costituzione, e che distinguere tra contributivo e retributivo può risultare irragionevole quando l’assegno è troppo basso. Strumenti come l’assegno sociale o l’accesso alla pensione con soli 5 anni di contributi non sempre, infatti, sono sufficienti a compensare l’assenza di integrazione.

Per questo il governo è chiamato a intervenire: se il sistema non assicura un livello minimo di tutela economica, diventa necessario rivedere le regole. L’estensione della pensione minima è una delle possibili soluzioni, insieme a una revisione dell’assegno sociale o dei requisiti contributivi, per evitare che il metodo contributivo produca pensioni insufficienti a garantire condizioni di vita dignitose.

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