I conti non tornano: per giustificare la valutazione i ricavi devono passare da 3 a 20 miliardi entro il 2025 e crescere del 577% entro il 2029.
C’è chi la chiama già “l’IPO del secolo”. Quella che potrebbe far entrare Sam Altman nella storia non solo della tecnologia, ma anche della finanza globale. Un debutto da 1.000 miliardi di dollari, una cifra mai vista per un’offerta pubblica iniziale.
Ma cosa succede se quel debutto non arriverà mai?
Negli ultimi mesi, la corsa dell’intelligenza artificiale ha mostrato il suo primo rallentamento. Dopo l’euforia iniziale di ChatGPT, i costi di calcolo, le sfide etiche e la crescente regolamentazione stanno cambiando la narrativa. OpenAI, che secondo stime interne dovrebbe portare i ricavi a 20 miliardi di dollari entro fine 2025, si trova a dover gestire impegni miliardari con giganti come Microsoft, Amazon e Nvidia. E per sostenere quel ritmo servono capitali veri, non solo hype.
Quotarsi in Borsa significa infatti aprire le porte a un controllo continuo, trimestrale, pubblico. Significa rispondere agli analisti, agli investitori e ai regolatori. Per un’azienda che nasce come no-profit e che oggi naviga tra contratti da capogiro e un modello di governance complesso, l’idea di un’IPO potrebbe essere più un rischio che un’opportunità.
Dietro l’IPO di OpenAI: tutti i numeri
Quella di OpenAI - se realizzata - diventerebbe l’IPO più grande di sempre, superiore a quelli di Apple, Saudi Aramco e Meta. Un traguardo simbolico, ma anche una scommessa enorme.
OpenAI è diventata sinonimo di “intelligenza artificiale”, ma non è ancora profittevole. Secondo stime interne, OpenAI dovrebbe generare oltre 20 miliardi di dollari di ricavi nel 2025, contro i circa 3 miliardi attuali.
Per raggiungere una valutazione di 1.000 miliardi di dollari, servirebbe una crescita del 577% l’anno entro il 2029, come calcolato dal venture capitalist Tomasz Tunguz.
Una missione titanica per un’azienda che non ha ancora registrato utili. Nel frattempo, Altman ha firmato contratti miliardari con Microsoft (che detiene il 27% della società) , Amazon, Nvidia, Broadcom e Oracle, impegnandosi in investimenti in infrastrutture AI per oltre 1.000 miliardi di dollari nei prossimi anni.
Il nodo è proprio questo: per sostenere tali impegni, OpenAI ha bisogno di capitali costanti. Ma quotarsi in Borsa significa sottoporsi a una trasparenza totale, con bilanci trimestrali e margini sotto esame. E per un’azienda che nasce come no-profit, oggi strutturata in una complessa holding controllata per il 26% dalla OpenAI Foundation, quella pressione potrebbe diventare un boomerang. Sam Altman lo sa bene: una IPO da record non è solo una vetrina di potere, ma un giogo finanziario da cui è difficile tornare indietro.
Se salta l’IPO, cosa cambia per gli investitori?
Per i piccoli risparmiatori e gli investitori privati, la mancata quotazione di OpenAI non sarebbe solo una notizia da prima pagina, ma un segnale del nuovo ciclo che si apre. Se OpenAI dovesse restare privata, la finestra per entrare in una delle storie più iconiche della Silicon Valley resterebbe chiusa per il pubblico retail. Ma, paradossalmente, questo potrebbe riportare equilibrio a un mercato che negli ultimi mesi ha corso troppo veloce dietro all’hype dell’AI.
Gli unici a beneficiarne, almeno nel breve termine, resterebbero i fondi privati e i colossi già dentro al capitale, da Microsoft ad Abu Dhabi.
Ma c’è un’altra implicazione. Se anche OpenAI, con la sua visibilità e il suo peso politico, rinunciasse al mercato pubblico, significherebbe che l’era delle grandi IPO tech è davvero finita.
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