Il timore di un’invasione di beni cinesi a basso costo anche a causa della dinamica dei dazi è diventato realtà in questi Paesi. Come sta cambiando l’export della Cina?
Mentre la cosiddetta guerra dei dazi alterna fasi di alta tensione a spiragli di tregua con accordi, le relazioni commerciali si stanno adeguando al clima incerto e sono in fase di cambiamento.
L’osservata speciale in questo conflitto fatto di tariffe, contromisure, aumenti dei prezzi di beni venduti all’estero è la Cina e il motivo è semplice: il dragone è da sempre considerato la più grande fabbrica manifatturiera a livello globale grazie alla sua capacità di produrre beni a prezzi così bassi e in grandi quantità da riempire i negozi e i magazzini di tutto il mondo.
La domanda che molti esperti si sono posti all’inizio della guerra dei dazi innescata da Trump è stata: che fine faranno i prodotti cinesi in entrata negli USA e ora più costosi? Dove verranno dirottati per colmare questo gap nei mercati di destinazione? La potenziale risposta ha sin da subito allarmato l’Europa, già debole da un punto di concorrenza industriale e nella sfida della competitività delle imprese.
Tuttavia, i primi segnali di allarme sulla temuta invasione di beni cinesi si sono palesati altrove: a dimostrazione dell’importanza della geopolitica, dove la vicinanza geografica influenza scelte politiche di convenienza, ecco quali sono i Paesi che oggi possono già vedere gli effetti nefasti dei dazi USA. E dell’arrivo di sempre più beni a basso costo dalla Cina.
La Cina invade questi Paesi con i suoi beni: il grafico
C’è un grafico, elaborato da Statista, che fotografa un dato molto interessante per capire come la guerra dei dazi trasforma le relazioni commerciale e colpisce, di conseguenze, le economie di alcuni Paesi.
Nel dettaglio, come esaminato dagli analisti, i dati dell’Amministrazione Generale delle Dogane della Cina mostrano che il surplus commerciale cinese con i Paesi ASEAN sta crescendo più rapidamente di quello con gli USA.
Nel primo trimestre del 2025 le esportazioni cinesi verso questo blocco asiatico ha raggiunto i 190 miliardi di dollari, più del doppio rispetto al 2021. In confronto, l’export del dragone con gli Stati Uniti ha toccato un livello massimo nello stesso anno a quasi 400 miliardi di dollari, per poi scendere a 361 miliardi di dollari più di recente.
In sintesi, se la Cina sta rallentando la vendita dei suoi prodotti nel mercato USA, allo stesso tempo sta velocizzando l’export verso il Sud-Est asiatico, area vicina e quindi appetibile. Il grafico è chiaro al riguardo:

La questione è stata di recente affrontata dal quotidiano The Straights Times, con sede a Singapore, secondo il quale sarebbe in corso una invaasione di prodotti cinesi a basso costo nel Sud-est asiatico. I dazi statunitensi sui prodotti provenienti dal Paese hanno esasperato la pressione sui produttori cinesi per trovare nuovi acquirenti, così come il recente annuncio di lunedì secondo cui la crescita delle vendite al dettaglio ha rallentato ed è rimasta al di sotto delle aspettative ad aprile.
Per ovviare a questa fiacca domanda interna e alle tariffe, il dragone starebbe vendendo di più nei mercati limitrofi.
La Cina cambia rotta: dove vanno i suoi beni?
Fonti intervistate da The Straits Times hanno affermato che, a causa dei dazi in vigore da diverse settimane sulle esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti, i produttori cinesi hanno visto accumularsi le merci e hanno cercato di smerciarle a prezzi ridotti nelle regioni limitrofe, vendendole direttamente e a prezzi scontati sulle piattaforme di e-commerce cinesi internazionali, come Taobao.
Il rapporto afferma inoltre che l’industria tessile in Indonesia è stata colpita, con conseguenti licenziamenti, a causa di un eccesso di offerta di tessuti cinesi. In Thailandia, sono stati coinvolti ceramiche e artigianato, mentre in Giappone le auto elettriche.
In Indonesia, per esempio, il gigante tessile Sritex, che impiega circa 50.000 lavoratori e cuce abiti per marchi globali come Uniqlo, Zara e H&M, ha avviato una procedura fallimentare all’inizio del 2025, attribuendo la causa del suo fallimento finanziario a un “eccesso di offerta di tessuti in Cina”.
In Thailandia, circa due terzi delle fabbriche di ceramiche e artigianato nella provincia settentrionale di Lampang hanno chiuso i battenti negli ultimi cinque anni, lasciandone solo 89, secondo le associazioni industriali locali.
Per mantenere operative le linee di produzione in Cina, l’industria manifatturiera ha raddoppiato gli sforzi per espandere le vendite in altri mercati. Il Sud-est asiatico è una di queste destinazioni: sebbene i suoi consumatori siano meno abbienti di quelli degli Stati Uniti, la regione è ben collegata con la Cina tramite rotte terrestri, marittime e aeree.
Non solo. I produttori cinesi hanno anche esteso la propria rete dall’Europa e dal Medio Oriente all’America Latina e all’Africa, tenendo d’occhio chiunque possa acquistare i loro prodotti. In questo modo, stanno dando del filo da torcere agli stessi esportatori del Sud-est asiatico.
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