Il caso Oracle potrebbe far scoppiare la bolla AI

Tommaso Scarpellini

12/12/2025

La fragilità emersa nell’infrastruttura AI apre scenari inattesi sulla sostenibilità del settore, alimentando dubbi sui ritorni e sui multipli elevati.

Il caso Oracle potrebbe far scoppiare la bolla AI

E se il primo vero segnale di fragilità del mercato AI non arrivasse da chi l’intelligenza artificiale la crea, ma da chi dovrebbe garantirle l’infrastruttura per crescere? Il tema oggi non sono solo i prezzi delle big tech, ma la sostenibilità economica dell’enorme macchina che alimenta questo nuovo ciclo tecnologico. Il caso Oracle, improvviso e violento, rischia di essere il campanello d’allarme che nessuno voleva ascoltare così presto.

Il crollo improvviso: non è solo un miss

Oracle precipita dell’11% nel pre-market. Il motivo apparente è banale: ricavi a 16,06 miliardi contro 16,21 miliardi stimati. Una differenza minima, insignificante in un contesto normale. Ma il mercato non si trova in un contesto normale. È immerso in una fase di compressione multipli in cui ogni segnale di rallentamento assume un significato macro molto più ampio. È per questo che il contagio è immediato: Nvidia e AMD arretrano dell’1%, CoreWeave scivola del 3%, SoftBank, cuore dell’esposizione AI in Giappone, crolla del 7,7%. Oracle non è una tech qualsiasi: è il perno dell’infrastruttura su cui dovrebbe poggiarsi la crescita dei workload globali di intelligenza artificiale. Se si incrina il perno, si incrina tutto il sistema.

Perché Oracle è così centrale nella filiera ai

Negli ultimi due anni Oracle ha costruito una narrativa strategica estremamente chiara: diventare la colonna vertebrale infrastrutturale dell’AI. È un obiettivo ambizioso, reso credibile dall’accordo con OpenAI, che si impegna a spendere oltre 300 miliardi in cinque anni sui servizi Oracle. Una cifra che da sola ridefinisce il peso dell’azienda nell’ecosistema tecnologico.

Ma questa centralità ha un prezzo. I CAPEX esplodono. La società porta la previsione annua a 50 miliardi, contro i 35 stimati appena a settembre. Solo nel 2025 fiscale investirà 21,2 miliardi. Un’escalation che dimostra quanto aggressiva sia la corsa di Oracle per rimanere rilevante nel mercato AI, ma che allo stesso tempo rivela un interrogativo che inizia a pesare: questi investimenti riusciranno davvero a generare ritorni adeguati?

Il vero problema non è quanto spendono, ma cosa ritorna

La teoria classica suggerirebbe che CAPEX elevati siano un segnale di espansione futura. In un contesto di crescita organica sarebbe così. Ma l’AI non vive una crescita organica: vive un’espansione ipertrofica, che brucia capitale a ritmi senza precedenti. Il punto non è “quanto investi?”, bensì “quanto ti torna per ogni dollaro investito?”.
E qui emergono due fragilità profonde, che non riguardano solo Oracle, ma l’intera filiera dell’intelligenza artificiale.

Un settore ad altissima intensità di capitale

L’AI non funziona seguendo l’economia del software tradizionale, leggera e scalabile. Funziona come un’industria pesante. Richiede data center specializzati, chip GPU con obsolescenza accelerata, un consumo energetico fuori scala, investimenti continui in architetture compute sempre più complesse e una supply chain globalmente limitata. È un modello che trasforma la promessa dell’AI, efficienza, scalabilità, margini elevati, in una sfida industriale che comprime i margini e sposta in avanti la generazione di cash flow.

Quando però il mercato premia questo settore con P/E altissimi, sta implicitamente scommettendo su ritorni molto superiori alla media. Il problema è che una crescita dei ricavi più lenta del previsto, anche di pochi decimali, suggerisce che la curva attesa dal mercato non sta accelerando al ritmo necessario per giustificare tali valutazioni. E questo, per la prima volta, è il vero nervo scoperto.

La possibilità che l’ai non generi cash flow nell’immediato

Il paradosso è chiaro: il mercato chiede profitti e ritorni rapidi, ma la tecnologia richiede tempo e capitale per maturare. Oracle, come altri attori del settore, sta pagando oggi per ricavi futuri che potrebbero arrivare solo tra anni. È un ciclo differito, che collide frontalmente con le aspettative di un mercato che ha già prezzato il futuro. E quando il futuro è già scontato nei multipli, ogni rallentamento del presente diventa drammatico.

È da questo mismatch temporale che nasce, in modo naturale, il timore di una bolla AI. Una bolla non scoppia a causa di un crollo improvviso. Scoppia quando un numero non torna più, quando una narrativa non è più allineata ai fondamentali, quando i multipli iniziano a far dubitare della loro sostenibilità.

Perché il contagio colpisce l’intero settore

Se rallenta Oracle, rallenta la domanda enterprise. E se rallenta la domanda enterprise, rallenta l’assorbimento di calcolo. Una minore espansione di workload significa potenzialmente minori necessità di infrastrutture, quindi minori acquisti di GPU, meno crescita per Nvidia, meno rotazione tecnologica per AMD, meno capacità vendibile per CoreWeave.

Ma attenzione, il caso Oracle non racconta un fallimento, anzi, i numeri sono buoni se visti in chiave assoluta e non relativa. L’unica cosa, occorre capire che con questo, l’AI non è più nella fase romantica e ascendente dell’hype, in cui ogni annuncio genera un rally. Ora entra nella fase della sostenibilità economica. Una fase in cui non basta investire. Bisogna dimostrare di poter trasformare CAPEX estremi in cash flow misurabili, in margini reali, in crescita organica. Se questo passaggio non avverrà, i multipli elevatissimi del settore non potranno reggere.
Ed è per questo che il caso Oracle pesa così tanto: non mostra debolezza, ma rivela le nuove regole del gioco.

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