Tre lavori a tempo pieno, per oltre 120 ore settimanali: questa donna deve rimborsare i 73.000 euro percepiti il malattia. Anche secondo il giudice «è incredibile».
Molto spesso le sentenze fanno eco ben fuori dai tribunali, suscitando dubbi e scatenando il dibattito nell’opinione pubblica. Così è accaduto con una recente decisione del tribunale di Amsterdam, soltanto apparentemente controversa. Il motivo per cui molte persone si sono indignate dinanzi alle parole del giudice è ben comprensibile, visto che è facile mettere in campo sentimenti di empatia e comprensione. D’altra parte, la verità processuale emersa è molto distante dalle parvenze e sarebbe opportuno approfondire anche le motivazioni della vicenda.
Questo caso è infatti molto utile per toccare il tema e comprendere che non è possibile fare valutazioni generiche e soprattutto trarre conclusioni affrettate, oltre a rivedere la normativa del lavoro e il comportamento corretto da adottare. In questo caso specifico citato, le questioni sollevate sono davvero numerose. Si parla di una donna, madre di due figli, che faceva tre lavori e ha anche avuto problemi di salute, la quale è stata condannata a pagare 73.000 euro al datore di lavoro.
Sintetizzata così, pur senza menzogne, la vicenda risulta a dir poco fuorviante ed ecco spiegato il motivo per cui (come accade con moltissime sentenze, anche in Italia) ne è nato un polverone mediatico senza precedenti. Di fatto, ricostruire gli eventi con precisione è quasi impossibile, ma conoscere le motivazioni della sentenza è sufficiente per capire l’opportunità di riflettere più compiutamente su alcune dinamiche.
Tre lavori a tempo pieno, deve 73.000 euro al capo
In base a quanto si apprende dalla sentenza del tribunale distrettuale di Amsterdam (n. 11553117\CV EXPL 25-3351) le cose sono andate pressoché come segue. Una donna ha ottenuto un impiego come data scientist presso una nota azienda chimica tedesca a settembre 2021, una posizione retribuita con uno stipendio da circa 5.000 euro al mese. Dopo circa 6 mesi di lavoro si è assentata con un congedo di malattia durato 2 anni, durante i quali l’azienda ha continuato a pagarle regolarmente lo stipendio come previsto dalla legge.
Al termine di questo periodo, superato il limite temporale, ha quindi fatto richiesta dell’indennità di malattia statale. I controlli, presumibilmente più approfonditi di quelli eseguiti dal datore di lavoro, hanno fatto emergere un secondo contratto di lavoro in corso. La donna era stata infatti assunta nel 2022 anche da un’altra azienda, peraltro concorrente della prima, con un impegno a tempo pieno. Come se non bastasse, sono in seguito emersi ulteriori impegni lavorativi: un apprendistato (sempre a tempo pieno) presso una banca e finanche una collaborazione occasionale con l’Università di Amsterdam.
La lavoratrice è quindi stata citata in causa dalla prima azienda, non riuscendo a convincere il tribunale della bontà delle sue intenzioni. In particolare, la donna avrebbe cercato di giustificarsi raccontando di essere stata trasparente circa i nuovi impieghi e di non essere in una posizione di conflitto di interessi. Versione che il giudice ha ritenuto “incredibile”, considerando che nessuno potrebbe pensare in buonafede di riuscire a svolgere ben tre lavori a tempo pieno, per un totale superiore a 120 ore settimanali.
Senza contare i limiti di legge e gli altri impegni quotidiani, significherebbe avere appena 48 ore libere in 7 giorni, nelle quali dovrebbero essere compresi bisogni primari come il riposo notturno. Una versione che ha davvero dell’assurdo, tant’è che come rilevato dal tribunale la donna ha ovviato al problema con il congedo di malattia. Così, la lavoratrice è stata condannata a rimborsare l’azienda dei 73.000 euro percepiti per la malattia del datore di lavoro, ma le è stato concesso di concordare con quest’ultimo le modalità e i tempi, non essendovi la disponibilità immediata dell’intera somma.
Nel complesso, poteva andarle peggio. Provando a ipotizzare una situazione simile in Italia, per quanto difficile, avremmo comunque un esito molto più severo. Il rimborso dekl’indennità di malattia dovrebbe essere pagato all’Inps, che potrebbe anche sporgere accuse penali dubitando una malattia fittizia, mentre il datore di lavoro avrebbe diritto a un diverso risarcimento per il danno subito.
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