Si apre la direzione nazionale del Partito Democratico ma al centro di tutto ci sono sempre le lotte interne di potere: il declino è ormai irreversibile.
Errare humanum est, perseverare autem diabolicum. Nonostante questa massima di Sant’Agostino venga ripetuta ormai da quindici secoli, a largo del Nazareno ancora non deve essere stata del tutto recepita.
Se non fosse bastato tutto il teatrino iniziato dopo la debacle referendaria, culminato con la scissione e il minimo storico raggiunto dal Partito Democratico alle elezioni del 4 marzo, i pochi mea culpa che sono stati recitati a caldo dopo il voto sono già acqua passata, tanto che si è tornati a discutere con vigore del solito tema: chi è che deve comandare?
Un Partito Democratico agonizzante
Mentre i vari leader, quelli presunti tali e i capi corrente, discutono su chi debba dettare la linea del partito, l’elettorato è scappato e questa fuga non sembrerebbe arrestarsi. Dopo la scoppola delle politiche è arrivata anche a stretto giro quella doppia delle regionali.
Sia in Molise che in Friuli Venezia Giulia era il Centrosinistra a governare. Nel primo caso lo scorso 22 aprile il Partito Democratico è passato dal 14,3% del 2013 (24.892 voti) al 9% (13.122 voti). La coalizione dal 44,70% (85.881 voti) al 17,1% (28.818 voti).
In Friuli Venezia Giulia dove la Serracchiani, probabilmente annusando l’aria, ha preferito un posto a Roma piuttosto che ricandidarsi per un secondo mandato, il 29 aprile il PD ha ottenuto il 18,11% (76.423 voti) mentre cinque anni fa era al 26,84% (107.180 voti). Il Centrosinistra poi dal 39,39% (211.508 voti) si è fermato al 26,84%(144.361 voti).
Ricapitolando: perdi la guida di importanti città come Roma e Torino, poi vieni sconfitto in un Referendum dove avevi puntato tutto, ti scippano la guida della Liguria, poi quella di Genova e altre città dove avevi sempre amministrato tipo La Spezia e Pistoia, perdi la Sicilia, fai un disastro alle politiche e poi a stretto giro subisci sconfitte anche in Molise e Friuli dove al governo c’eri tu, ma alla fine all’interno del partito è come se non fosse successo nulla.
Chi è stato il capo del partito negli ultimi anni è ancora lì, nonostante delle dimissioni di facciata da segretario. Anche tutta la sua corte, sempre più impettita, è presente così come le varie anime dissidenti che continuano a tramare contro il leader nella speranza di potergli fare le scarpe come se fossimo in un romanzo settecentesco.
La debacle del 4 marzo si sperava che potesse portare una forte dose di realismo all’interno dei dem, ma invece si continua a pensare che il partito sia sempre quello capace di prendere il 40% alle europee di quattro anni fa.
Una sindrome del Re Sole, dove si pensa di essere i migliori e che tutto il mondo politico ruoti attorno alle loro scelte. Come spesso accade però, la vita è bella perché è capace di darti anche delle chance per riscattarti.
Ecco dunque che si è tirati in ballo nelle trattative per cercare di formare un governo, un’ottima occasione per far capire di aver imparato dagli sbagli del passato e cercare di mettersi al servizio del paese e non della propria persona. Opportunità che però è stata buttata all’aria.
Una situazione deprimente
Questa direzione nazionale del PD doveva servire a capire se la maggioranza del PD fosse favorevole o contraria a iniziare un tavolo programmatico con il Movimento 5 Stelle, per cercare di dare un governo al paese dopo due mesi di impasse.
I pentastellati quindi, provocando anche una mezza rivolta nel proprio elettorato, hanno cercato di venire più incontro possibile ai dem: stop alle trattative con la Lega, dieci punti programmatici su cui imbastire l’esecutivo tutti presenti nel programma elettorale del Partito Democratico, nessuna traccia del Reddito di Cittadinanza e di una revisione del Jobs Act o della legge Fornero.
Parafrasando un celebre film, si trattava di “un’offerta che non si poteva rifiutare”. Le risposte piovute dall’area renziana del partito sono state però imbarazzanti, con cose del tipo “ci devono prima chiedere scusa” oppure “la base di partenza deve essere il nostro programma”, come se alle elezioni fosse stato il PD a prendere il 33% e i 5 Stelle il 18%.
Nonostante questa avversità Di Maio ha continuato a tenere tesa la propria mano, fino a che Matteo Renzi ha deciso di tornare a parlare spegnendo ogni possibilità di accordo di governo con il Movimento 5 Stelle.
Si è deciso quindi di non entrare neanche minimamente nella discussione di un possibile accordo di governo. Quello che si è verificato è stato paradossale: hai perso in malo modo le elezioni, hai comunque l’opportunità di poter realizzare tanti punti del tuo programma ma niente, rifiuti perché dici che è giusto stare all’opposizione vista la sconfitta, salvo poi rendersi disponibile a un governo istituzionale dove non verrebbe approvato neanche uno dei punti del tuo programma elettorale.
Questa direzione del Partito Democratico, che avrebbe dovuto parlare di contenuti per un eventuale governo, sarà un’ennesima prova di forza per vedere chi ha la maggioranza interna e quindi debba continuare a dettare legge.
Chi ha votato PD lo scorso 4 marzo lo ha fatto con ogni probabilità perché credeva giuste delle proposte come il salario minimo, assumere altre Forze dell’Ordine, creare un piano di sostegno alla famiglia, abbassare le tasse sul lavoro e aumentare quelle per i giganti del web.
Idee queste che potevano diventare realtà: per un partito che negli ultimi cinque anni ha governato per un periodo con Berlusconi e poi per il resto con Alfano e Verdini, credo che poca differenza possa fare da quale pulpito arrivassero i voti in Parlamento per approvare leggi che si credevano giuste.
Nulla è cambiato nel PD dopo il 4 marzo, con queste lotte intestine che ormai sono diventate insopportabili e stucchevoli. Nel caso si dovesse tornare alle urne, quello che viene considerato essere l’ultimo grande partito di massa rimasto in Italia rischia seriamente di ridimensionarsi ancora di più. Una fine inevitabile per chi continua a perseverare nei propri errori.
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