Essere CEO non significa solo successo e potere: per Dustin Moskovitz, miliardario e co-fondatore di Meta, è un ruolo logorante. Ecco perché guidare un’azienda può diventare un peso.
Nel lontano 2004, Dustin Moskovitz era un giovane studente di Harvard che, insieme a Mark Zuckerberg, Eduardo Saverin e Chris Hughes, avrebbe cambiato per sempre la storia di internet. Insieme, i quattro universitari fondarono Facemash, un social network che sarebbe poi diventato il rinomato e indimenticabile Facebook (ora Meta).
Quattro anni dopo, Moskovitz decise di lasciare la società guidata da Zuckerberg per fondarne una tutta sua: Asana, una piattaforma software per la gestione del lavoro. Ma il giovane imprenditore deteneva anche circa l’8% delle azioni di Facebook, per un patrimonio netto di ben 12 miliardi di dollari.
A soli 28 anni, quindi, Dustin Moskovitz era uno dei più giovani miliardari del pianeta e, secondo i dati più recenti di Forbes, si posiziona attualmente al 125° posto nella classifica delle persone più ricche del mondo, con un patrimonio stimato di 17,4 miliardi di dollari.
Tuttavia, il successo non sembra avergli giovato. O, almeno, così dice lui. In un’intervista rilasciata al podcast Stratechery, il co-fondatore di Meta ha definito i suoi 13 anni come CEO di Asana “estenuanti”, affermando che non avrebbe mai voluto assumere quel ruolo. Ecco perché.
Il co-fondatore di Meta si sfoga: “Non ho mai voluto fare il CEO”
Dopo 13 anni, Moskovitz ha recentemente annunciato le sue dimissioni da CEO di Asana, assumendo il ruolo di presidente della società. Il miliardario mantiene una quota del 53% delle azioni in circolazione, tra titoli di Classe A e di Classe B.
Per Moskovitz, è stato molto difficile stare al timone dell’azienda a causa della sua personalità introversa. “Non mi piace gestire squadre e non era mia intenzione quando abbiamo avviato Asana”, ha detto Moskovitz durante il podcast. “Poi una cosa tira l’altra e sono stato CEO per 13 anni, e l’ho trovato piuttosto estenuante”.
Il presidente di Asana era convinto che, dopo un po’ di tempo, le difficoltà si sarebbero attenuate, ma così non è stato:
Sono introverso, ho dovuto semplicemente assumere questa espressione giorno dopo giorno e poi, all’inizio, pensavo: “Oh, diventerà più facile, l’azienda diventerà più matura”. E invece il mondo ha continuato a diventare più caotico: la prima presidenza di Trump, la pandemia e tutte le questioni razziali hanno reso tutto molto meno incentrato sulla costruzione dell’azienda. Essere un CEO significa molto più che reagire ai problemi e fare questo genere di cose.
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Altri leader che “odiano” il ruolo di CEO
Ma Moskovitz non è l’unico plurimiliardario a essere introverso e “odiare” il ruolo di CEO. Anche altri leader aziendali di fama (e ricchezza) mondiale si definiscono “timidi”, dall’ex collega Mark Zuckerberg fino a Bill Gates e Warren Buffett.
Tuttavia, secondo Susan Cain, autrice del libro “Quiet Power: I Superpoteri degli Introversi”, gli introversi avrebbero una marcia in più, poiché possiedono caratteristiche particolarmente adatte alle posizioni di leadership, tra cui la propensione alla cautela, l’abilità nel risolvere i problemi e una maggiore creatività. La scrittrice sottolinea che tratti come la lentezza e la prudenza possono rivelarsi fondamentali per un leader nel momento di prendere decisioni, aiutandolo a “scartare” mosse più impulsive o avventate. Anche la solitudine non è un difetto, ma piuttosto una ricchezza: Cain la definisce “un vero catalizzatore per la creatività”.
Ma c’è chi la pensa diversamente, come Brian Chesky, co-fondatore e CEO della piattaforma di affitti brevi Airbnb, che in un tweet su X ha dichiarato: “La profonda solitudine che ho sperimentato come CEO è difficile da descrivere a parole”.
Anche Elon Musk, fondatore e CEO di colossi come Tesla, SpaceX e xAI, ci è andato giù pesante, affermando che avviare un’azienda è paragonabile a “fissare l’abisso e mangiare il vetro”. Secondo il tycoon sudafricano - che è attualmente la persona più ricca del mondo - i CEO vivrebbero infatti con la costante paura del fallimento (l’“abisso”), mentre affrontano allo stesso tempo problemi complessi e dolorosi (i “vetri”).
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