Cos’è il contratto generale d’investimento e quando è valido? La posizione della giurisprudenza italiana

Giovanni Franchi

3 Agosto 2017 - 13:10

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Due importanti sentenze della Corte d’appello di Bologna relative ad acquisti di titoli Lehman Brothers. Per la Corte il contratto generale d’investimento è nullo per difetto di forma quando non è firmato anche dal legale rappresentante dell’istituto di credito.

Cos’è il contratto generale d’investimento e quando è valido? La posizione della giurisprudenza italiana

Sarà sicuramente vero quello che le banche hanno per lungo tempo continuato a ripetere relativamente agli acquisti di obbligazioni Lehman Brothers: che fino a qualche giorno prima del default si trattava di titoli con un ottimo rating e che non potevano sapere che di lì a poco quella società sarebbe finita in fallimento (tale è il chapter 11 statunitense).

Sarà anche così, ma ormai molte sono le sentenze o le ordinanze ex artt 702 bis e segg. c.p.c. che hanno condannato intermediari finanziari alla restituzione del capitale investito per l’acquisto di quei titoli a causa di vizi formali.

Tra queste vi sono anche quelle recentissime della Corte d’appello di Bologna n. 1639/2017 e n. 1659/2017, entrambe del 12.7.17, con le quali è stata dichiarata la nullità per difetto di forma dei contratti generali d’investimento, per l’effetto dei singoli ordini. Per questo la banca è stata condannata alla restituzione del capitale investito, maggiorato degli interessi legali maturati dalla data dell’operazione al saldo, con la detrazione di quanto percepito dalla vendita dei titoli.

Tali sentenze sono le ultime a toccare l’annosa questione della validità o meno del contratto generale d’investimento, altresì chiamato con termine inglese master agreement, quando il medesimo risulti sottoscritto dal cliente, ma non, allo stesso modo, dal legale rappresentante dell’istituto di credito.

Annosa questione – si diceva -, perché sul punto la giurisprudenza si è pronunciata negli anni in modo contrastante. È talmente controversa tale questione che la stessa è stata recentemente rimessa alle Sezioni Unite, le quali si pronunceranno sul punto, mettendo la parola fine ad un lungo dibattere.

Cos’è il contratto generale d’investimento?

Prima di tutto, qualche parola sul contratto generale d’investimento.

È questo il contratto che disciplina tutti i rapporti tra intermediario finanziario e cliente e che, a norma dell’art. 23 d.lgs. n. 58/1998 (Testo Unico Finanziario o TUF), deve essere redatto per iscritto sotto pena di nullità.

Nullità peraltro relativa perché deducibile, a suo uso e consumo, solo dal cliente. In difetto di quella forma ad substantiam, ne discende la sua nullità e, di conseguenza, di tutti gli ordini di acquisto titoli colpiti dall’investitore, il quale è libero di non dedurla o di farla valere solo per alcuni acquisti andati male.

Senza volersi dilungare su tale figura, converrà ora esaminare il problema affrontato dalla Corte d’appello di Bologna nelle due citate sentenze: se, come detto, per l’osservanza dell’art. 23 sia necessaria la firma del legale rappresentante della banca.

Quanto il contratto di investimento è valido?

Sul punto si sono registrati nel tempo due, contrapposti, orientamenti.

Secondo una prima tesi, il requisito della forma scritta ex art. 23 cit., sarebbe rispettato con la sottoscrizione del cliente del modulo contrattuale contenente il contratto-quadro.

A parere dei giudici e degli autori che si sono uniformati alla stessa il requisito formale dovrebbe in tal caso ritenersi osservato, perché sarebbe garantito l’interesse alla conoscenza, alla trasparenza e lo scopo informativo, dell’investitore.

Per tale indirizzo, in altre parole, non occorrerebbe la sottoscrizione della banca perché il contratto sia perfezionato: la volontà dell’investitore deve essere espressa per iscritto, mentre quella dell’intermediario finanziario può essere manifestata con altre forme, idonee a rivelare, anche in via presuntiva, l’esistenza del suo consenso, come ad esempio la predisposizione del testo contrattuale, la raccolta della sottoscrizione del cliente, la consegna del contratto o l’esecuzione del medesimo ex art. 1327 c.c.

Tale conclusione deriverebbe anche dalla necessità di evitare una lettura dell’art. 23 cit. non efficiente per il mercato finanziario, volta a scongiurare un utilizzo opportunistico del requisito formale.

In questo senso si era pronunciata una prima volta la Suprema Corte nel 2012, statuendo che:

La previsione di forma contenuta nell’articolo 23 del decreto legislativo n. 58 del 1998 è soddisfatta dalla sottoscrizione del contratto da parte del solo investitore, allorché la copia prodotta in giudizio dal cliente rechi la dicitura “un esemplare del presente contratto ci è stato da voi consegnato”. L’obbligo di forma scritta è altresì rispettato quando, alla sottoscrizione del contratto da parte del solo investitore, abbiano fatto seguito, anche alternativamente, la produzione in giudizio di copia del contratto da parte della banca, oppure la manifestazione di volontà della medesima di avvalersi del contratto stesso, risultante da plurimi atti posti in essere nel corso del rapporto (ad es. comunicazione degli estratti conto).

Diverso l’orientamento giurisprudenziale successivo, confermato anche e proprio dalla Corte d’appello di Bologna con una sentenza in data 19.5.15, un’altra n. 1792/16 e tre recentissime n. 89/17, n. 462/17 e n. 467/17, secondo cui il master agreement è nullo quando non sia stato sottoscritto dalla banca, trattandosi di atto per il quale è richiesta la forma scritta ad substantiam ex art. 23; e “la sottoscrizione non può essere provata per testi, presunzioni e neppure confessione…; la relativa prova non può essere supplita neppure tramite documenti successivamente inviati nel corso del rapporto (Cass. 7283/13 sostanzialmente dissonante rispetto a Cass. 4564/2012), e neppure con la produzione in giudizio da parte del soggetto di cui manca la sottoscrizione posto che (a parte la decorrenza degli effetti di un consenso in tal modo espresso) la domanda di nullità comporta ’revoca della proposta’ cui è assimilabile lo scritto proveniente da una sola parte”.

Così argomentando, la Corte felsinea ha anticipato e seguito la Suprema Corte. Ci si riferisce alla recentissime decisioni della Cassazione n. 5919 del 24 marzo 2016, n. 7068 dell’11 aprile 2016e alla ancora più recente n. 8395 del 27 aprile 2016, le quali hanno confermato che la sottoscrizione dell’istituto non può essere supplita dalla produzione se successiva, come nella specie, agli acquisti e neppure da confessioni o da documenti inviati dalla banca.

Ed è questa, come si diceva, la tesi seguita dalla Corte d’appello di Bologna nelle due commentate sentenze. Tesi, alla quale non può non aderirsi, se si considerano le norme in materia, tra le cui gli artt. 1326 e 1350 c.c.. Per questi ultimi, come, noto, perché il contratto possa ritenersi concluso è necessario uno scambio di consensi tra le parti, scambio di consensi che deve avvenire, per entrambi i contraenti, con la forma richiesta dalla legge sotto pena d’invalidità.

E davvero non si comprende come possa considerarsi sufficiente un comportamento concludente, quale l’invio di estratti conto o la produzione in giudizio. Si tratta, in ogni caso, quasi sempre di atti successivi all’acquisto dei titoli e la nullità, come noto, non può essere sanata ex post.

Meritevole di consenso è pure, l’altra parte di entrambe le motivazioni, dove si precisa che vi sarebbero stati anche elementi per una condanna risarcitoria, per non avere la Banca dimostrato di aver fornito informazioni sull’esatta pericolosità del titolo e soprattutto, nel corso del rapporto, del fatto che quei bond stavano a poco a poco perdendo valore.

Sono queste osservazioni di particolare importanza, di cui molti giudici avrebbero dovuto tenere conto nelle diverse cause che vi sono state in Italia per acquisti di titoli finiti in default.

Un ultimo rilievo, infine, sul rigetto da parte della Corte dell’eccezione dell’istituto, a dire del quale la domanda avrebbe dovuto essere respinta, perché i titoli erano stati alienati. La vendita degli stessi, secondo quel giudice, comporta, infatti, quale unica conseguenza che dal dovuto, in caso di accoglimento tanto della domanda di nullità quanto di quella di risoluzione o risarcitoria, debba essere detratto il ricavato e null’altro.

Il che è corretto, non potendosi certo ravvisare nella vendita una rinuncia alla tutela giuridica.

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