Russiagate: cos’è e cosa rischia Donald Trump in questa inchiesta sui rapporti con Mosca?

Alessandro Cipolla

25 Marzo 2019 - 09:33

Prosegue il Russiagate: vediamo cos’è e cosa rischia Donald Trump in questa indagine sui rapporti tra il Presidente e Mosca durante la scorsa campagna elettorale.

Russiagate: cos’è e cosa rischia Donald Trump in questa inchiesta sui rapporti con Mosca?

Il Russiagate arriva una svolta, con il rapporto del procuratore speciale per il Robert Mueller che non proverebbe come qualsiasi funzionario della campagna elettorale di Donald Trump abbia consapevolmente cospirato con la Russia.

Anche se il Presidente ha subito esultato quando è stata resa nota la notizia, resta ancora tutto da capire lo sviluppo per l’accusa rivolta a Trump di ostruzione alla giustizia.

L’inchiesta infatti nel tempo si è allargata sempre di più, con la vicenda che potrebbe deflagrare proprio a ridosso della campagna elettorale delle elezioni negli Stati Uniti del 2020.

Ma cos’è questo Russiagate? Vediamo allora di fare un po’ di chiarezza su cosa riguarda nello specifico questa indagine e, soprattutto, quali sono i rischi per Donald Trump qualora fosse confermato il suo coinvolgimento diretto.

Russiagate e Trump: la nascita dell’indagine

Le elezioni negli Stati Uniti dello scorso novembre sono state tra le più avvincenti, ma anche controverse e senza esclusione di colpi, della storia recente del paese. Alla fine Donald Trump, contro ogni pronostico, è riuscito a sconfiggere la grande favorita Hillary Clinton.

Un successo quello del tycoon che però, fin dall’inizio della sua campagna elettorale, è stato accompagnato da accuse e supposizioni di aiuti da parte della Russia di Vladimir Putin per favorire la sua vittoria.

Una ridda di avvenimenti e di sospetti che a inizio 2017 sono sfociate nell’avvio da parte dell’Fbi di un’indagine per fare chiarezza su questi rapporti, con tutta la vicenda che da buona tradizione americana ha preso il nome di Russiagate.

Per capire meglio cos’è il Russiagate bisogna fare un piccolo passo indietro. Nella altrettanto dura competizione delle primarie in seno ai repubblicani e ai democratici, Donald Trump era di sicuro il candidato più controverso e di rottura.

Una figura talmente scomoda che anche il Partito Repubblicano stesso non vedeva di buon occhio una possibile sua candidatura. Favorito anche dall’inconsistenza degli avversari, Donald Trump alla fine riesce a vincere le primarie ed essere così il candidato conservatore alla Casa Bianca.

Una avvisaglia del futuro Russiagate arriva nel marzo 2016, quando Trump nomina Paul Manafort manager della sua campagna elettorale e Carter Page suo consulente. Entrambi vengono dati come molto vicini alla Russia.

Il primo colpo di scena avviene ad agosto 2016 quando Paul Manafort, di lui leggeremo anche più avanti, è costretto a dimettersi dal suo ruolo nella campagna elettorale di Trump accusato di aver ricevuto dei finanziamenti provenienti dalla Russia.

Da quel momento comincia ad aleggiare il sospetto che ci sia un disegno preciso di Vladimir Putin per cercare di favorire la vittoria di Donald Trump, vista la poca simpatia del presidente russo nei confronti di Hillary Clinton e dell’amministrazione Obama in generale rea di aver decretato le sanzioni verso la Russia per la questione dell’Ucraina.

A pochi giorni dal voto presidenziale, ecco che alcuni hacker russi pubblicano i contenuti di alcune mail dell’entourage democratico, con Trump che subito attacca la sua avversaria accusandola di essere una donna vicina ai poteri forti.

Un fatto grave questo che secondo una recente intervista rilasciata da Hillary Clinton avrebbe influito in maniera decisiva, assieme all’operato di James Comey di cui parleremo in seguito, sull’esito finale delle elezioni.

Donald Trump quindi vince a sorpresa le elezioni, nominando il generale dell’esercito in pensione Michael Flynn come consigliere per la sicurezza nazionale e Jeff Sessions come ministro della Giustizia.

Al vertice dell’Fbi viene confermato il fervente repubblicano James Comey, che era stato nominato da Obama ma che in campagna elettorale aveva rispolverato una vecchia inchiesta contro la famiglia Clinton, mandando su tutte le furie Hillary.

Ad inizio anno però ecco che dalla figura di Michael Flynn nasce il Russiagate. A colloquio con il vice presidente Mike Pence, l’allora consigliere per la sicurezza nazionale omette di dichiarare di aver parlato delle sanzioni inflitte a Mosca in diversi incontri tenuti con l’ambasciatore russo Sergey Kislyak.

Un particolare che costa a Flynn il posto e che da il via all’indagine dell’Fbi e della commissione del Congresso, che vogliono fare piena luce sui rapporti tra Trump e il suo entourage con la Russia.

Dopo il caso Flynn, arriva anche il rapporto di un ex agente britannico che parla di un dossier realizzato dalla Russia tempo fa su Donald Trump, allo scopo di ricattare il tycoon visto i suoi contenuti imbarazzanti: nelle pagine in questione si parla di giochi sessuale e di affari poco limpidi intrattenuti a Mosca.

Passano i giorni e questa volta a finire nell’occhio del ciclone è il ministro della Giustizia Jeff Sessions, che al Senato nega di aver mai incontrato l’ambasciatore russo Kislyak mentre altri fonti confermerebbero l’accaduto.

In mezzo c’è poi anche la figura sempre di Michael Flynn, che in un primo momento si era detto disponibile a testimoniare in cambio dell’immunità, salvo poi trincerarsi dietro un prolungato silenzio.

Gli sviluppi

Mentre le indagini procedono, sorpresa Donald Trump decide di licenziare James Comey che con la sua Fbi stava proprio indagando sul Russiagate. Per l’opinione pubblica il gesto è stato interpretato come un chiaro tentativo di far naufragare l’attività investigativa.

Sempre più messo alle corde, Donald Trump via Twitter ammette di aver condiviso con il ministro degli Esteri russo Lavrov delle informazioni riservate inerenti al tema terrorismo.

L’uscita di Trump produce l’effetto di spiazzare anche lo stesso staff del Presidente, che fin dalle prime indiscrezioni aveva sempre negato l’accaduto. Come se non bastasse, a parlare adesso è anche James Comey, l’ex capo dell’Fbi licenziato da Trump. In un memorandum infatti si legge che il Presidente gli chiese in un incontro svolto a febbraio di insabbiare il Russiagate.

In particolare, secondo Comey ci fu una richiesta specifica di Donald Trump per far calare il silenzio sull’indagine riguardante Flynn, che sempre più appare essere il vero elemento chiave di questa vicenda.

Oltre ai collaboratori, Trump deve guardarsi anche dai problemi in famiglia. Jared Kushner, marito dell’amata figlia Ivanka, sarebbe anche lui indagato in questa vicenda riguardante i rapporti con il Cremlino.

Ad inguaiare però Trump è stata la testimonianza dell’ex capo dell’Fbi in audizione al Senato americano. James Comey infatti ha dichiarato come non ci siano dubbi sul fatto che la Russia abbia interferito nelle elezioni Usa.

Inoltre, Comey ha aggiunto che il Presidente abbia mentito sia su di lui che sull’intera Fbi. A questo punto i rischi per Donald Trump di essere messo sotto impeachment aumentano in maniera considerevole.

Il coinvolgimento di Trump

Proprio la deposizione di Comey potrebbe essere costata molto cara al tycoon. Mentre Trump stava festeggiando il compleanno per i suoi 71 anni, ecco che il Washington Post pubblicava uno scoop dove si dava la notizia che il Presidente fosse ufficialmente indagato per la vicenda Russiagate.

Una fuga di notizie ritenuta scandalosa da parte degli ambienti vicini alla Casa Bianca, visto che la rivelazione giornalistica ipotizza che Donald Trump sarebbe indagato per ostruzione alla giustizia.

Al centro ci sarebbe il licenziamento di James Comey e le sue dichiarazioni al Senato. Il Presidente ha bollato le parole dell’ex capo dell’Fbi come falsità, ma il rischio di impeachment a questo punto per Trump diventa sempre più probabile.

Alla fine però anche da parte di Donald Trump è arrivata la conferma della notizia dell’indagine su di lui. Naturalmente, la notizia è stata data dal Presidente a modo suo, ovvero tramite Twitter.

A finire nell’occhio del ciclone per il Russiagate però è anche Donald Trump Jr., figlio del Presidente. Dopo una serie di anticipazioni da parte della stampa, il rampollo infatti ha ammesso un incontro con un’avvocatessa vicina a Mosca prima delle elezioni, pubblicando anche il contenuto di alcune mail a riguardo.

In sostanza, il figlio di Trump nel giugno 2016 avrebbe ricevuto offerte per avere del materiale che potesse infangare la figura di Hillary Clinton, all’epoca la sfidante del padre alle elezioni, reagendo in maniera entusiasta: «I love it».

Donald Trump Jr. ha poi detto di non aver mai fatto parola al padre dell’incontro con l’avvocatessa e dello scambio di mail con un suo intermediario, fatto questo ribadito anche dal Presidente.

Intanto al Congresso è arrivato il primo atto formale di richiesta di impeachment da parte di un deputato democratico, un primo passo verso una lunga e complessa strada che potrebbe portare alle dimissioni o alla condanna di Trump.

Altro passo poi è stata la selezione, da parte del procuratore speciale Robert Mueller, di un Grand Jury a Washington. Gli esperti dicono che questo atto sia sintomo di una accelerazione nell’indagine, che a breve potrebbe portare a nuovi sviluppi.

Le prime ammissioni

Tirata in ballo nelle indagini, anche Facebook poi con le proprie ammissioni ha alimentato i sospetti sulla veridicità di questo Russiagate. La società di Zuckerberg infatti ha reso noto che, già a partire dal 2015 quando Trump annunciò la propria candidatura, i famigerati falsi account riconducibili alla Russia hanno speso in pubblicità sul social network circa 100.000 dollari.

Dopo Facebook poi è stata la volta di Twitter. Anche l’altro famoso social infatti ha ammesso che nel 2016 circa duecento account riconducibili a società russe, ora tutti sospesi, avrebbero speso in pubblicità 274.000 dollari.

Questa dei «troll» russi che avrebbero favorito l’attuale Presidente durante la campagna elettorale, cercando di screditare anche con false accuse gli avversari politici, è stato uno dei primi sentori che poi hanno portato all’apertura dell’indagine.

Ad aumentare i sospetti nel marzo 2018 è stato poi lo scoppio del caso di Cambridge Analytica, una società britannica che negli anni ha raccolto dati su Facebook per costruire profili dettagliati di milioni di elettori americani.

Anche se questo filone di indagine è soltanto agli albori, sembrerebbe che Steve Bannon, l’ex stratega della campagna elettorale del Presidente, avesse supervisionato questo lavoro da parte di Cambridge Analytica.

Per Trump le cose però se possibile da male si stanno mettendo anche peggio. Il suo ex capo della campagna elettorale Paul Manafort si è infatti costituito ai Federali accusato di cospirazione per una vicenda di fondi neri. Per lui ci sarebbero ben 32 capi d’accusa.

Mentre sembrerebbe che i post pubblicati da Mosca su Facebook sotto il periodo elettorale siano stati letti da 126 milioni di americani, un ex collaboratore George Papadopoulos ha ammesso di aver collaborato con i russi per raccogliere materiale contro i Democratici.

Nonostante le sempre maggiori prove e le ammissioni, il Presidente degli Stati Uniti ha dichiarato di credere a Vladimir Putin quando dice che la Russia è estranea alla vicenda. Parole queste che hanno scatenato un vespaio di polemiche con il tycoon che è stato costretto a una immediata e repentina correzione parlando anche di fiducia nell’operato della CIA.

In seguito, in un’audizione pubblica alla Camera americana l’ex avvocato di Trump Michael Cohen ha definito il Presidente “un truffatore”, ammettendo di aver pagato con propri fondi su richiesta del tycoon 130.000 una pornostar per far tacere la sua storia con l’inquilino della Casa Bianca.

Flynn confessa

Alla fine Michael Flynn è crollato. L’ex consigliere alla Sicurezza Nazionale ha infatti confessato in tribunale di aver mentito all’Fbi riguardo i suoi rapporti e contatti con l’ambasciatore russo Kislyak.

Flynn ora è stato incriminato ma l’aspetto più delicato è il capire se Donald Trump sapesse o meno dell’attivismo con la Russia da parte dell’ex generale. Nel caso la situazione per il Presidente si farebbe molto difficile.

Secondo delle indiscrezioni, dopo la confessione Michael Flynn sarebbe pronto anche a collaborare con il procuratore speciale Muller, tirando in ballo il tycoon come “mandante” dei suoi contatti con Mosca.

Il grande obiettivo di Muller però rimane sempre quello di poter interrogare il Presidente: grazie ai suoi avvocati Trump finora è riuscito sempre a evitare di trovarsi di fronte agli investigatori federali, ma adesso il procuratore speciale potrebbe chiedere un mandato per portare il tycoon davanti a un grand jury.

Il puzzle del Russiagate quindi si aggiunge ogni giorno di un pezzo, con Donald Trump ormai sempre più impopolare nel suo paese tanto che potrebbe ben presto andare incontro anche all’impeachment.

Il processo

Tra indiscrezioni, polemiche, ammissioni e smentite, l’indagine comunque va avanti tanto che è iniziato il processo per il primo dei personaggi coinvolti in questo Russiagate.

Sul banco degli imputati in Virginia infatti c’è Paul Manfort, l’ex capo della campagna elettorale di Donald Trump e uno degli elementi chiave dell’inchiesta. L’accusa è quella di evasione fiscale e truffa.

Secondo l’accusa Manfort avrebbe guadagnato circa 60 milioni di dollari lavorando in Ucraina, ma avrebbe nascosto al Fisco gran parte degli introiti. Se dovesse essere ritenuto colpevole rischierebbe anche diversi decenni di carcere.

La sentenza ha ritenuto Manfort colpevole di otto capi di imputazione, condannandolo a 3 anni e 11 mesi di reclusione: una vittoria per il procuratore Muller che così ha messo in cascina un primo successo per il suo filone accusatorio.

Per Trump però i guai arrivano anche da altri fronti, visto che il suo ex avvocato Michael Cohen ha patteggiato in merito al pagamento della ex pornostar Stormy Daniels, ammettendo quindi che la somma venne versata su richiesta del tycoon allora candidato violando così la legge sul finanziamento delle campagne elettorali.

Il rapporto Muller

Era grande l’attesa per il rapporto sul Russiagate redatto dal procuratore speciale Roberto Muller. A rivelarne il contenuto è stato il ministro delle Giustizia William Barr con una lettera al Congresso.

Il procuratore speciale - si legge nella lettera - non ha rinvenuto che, durante la campagna elettorale di Trump, nessun associato con questa abbia cospirato o si sia coordinato con i numerosi tentativi del governo, nonostante le varie offerte giunte da individui affiliati con la Russia per sostenere la campagna di Trump”.

Una vittoria quindi per Donald Trump che vede cadere l’infamante accusa di aver tradito il proprio paese, anche se i Democratici chiedono che si vada fino in fondo in questa vicenda.

Rimane in piedi però per il Presidente l’accusa di ostacolo alla giustizia, anche perché nel rapporto di Muller si legge che “non conclude che il presidente ha commesso un crimine, d’altra parte non lo esonera dall’averlo fatto”.

Insomma per il procuratore al momento non ci sarebbero prove della colpevolezza di Trump ma, al tempo stesso, neanche nessun elemento che possa portare a far credere che non siano stati commessi crimini.

Russiagate: cosa rischia Trump?

A breve quindi ci potrebbero essere ulteriori sviluppi sul Russiagate. Molto dipenderà da cosa potrebbe emergere a riguardo i rapporti intrattenuti da Flynn con la Russia.

Anche se il rapporto Muller scagiona il tycoon, se dalle prossime testimonianze o indagini dovesse emergere un coinvolgimento diretto e colpevole di Trump nella vicenda, il presidente rischierebbe molto seriamente di finire sotto impeachment.

Adesso che dopo le Midterm Elections i Democratici hanno conquistato la maggioranza alla Camera (il Senato invece è rimasto in mano dei Repubblicani), i dem potrebbero presentare una richiesta di impeachment.

Una prospettiva che non così irrealistica, tanto che Donald Trump ha subito messo le mani avanti dichiarando che “Se i Democratici pensano di sprecare il denaro dei contribuenti per portare avanti inchieste alla Camera contro di noi, allora anche noi saremo costretti a considerare di indagarli al Senato per tutte le fughe di informazioni classificate”.

In sostanza comunque l’impeachment è un rinvio a giudizio di un pubblico ufficiale nel caso in cui si possa ritenere che abbia commesso comportamenti illeciti nell’adempimento ed esercizio delle proprie funzioni.

In tutta la storia degli Stati Uniti, finora solo due presidenti sono stati salvati una volta finiti sotto la procedura di impeachment dal Senato: Andrew Johnson nel 1868 e Bill Clinton nel 1998, quest’ultimo a seguito della nota vicenda a sfondo sessuale che per mesi ha riempito i giornali non solo di politica ma anche di gossip di tutto il mondo.

Tutti gli altri Presidenti invece si sono sempre dimessi prima, come fece per esempio Richard Nixon quando fu coinvolto nel famigerato caso Watergate nel 1974.

Al momento quindi non è ancora dato sapere se Donald Trump alla fine possa essere posto sotto impeachment, ma conoscendo lo spirito battagliero del Presidente è molto difficile che anche nel caso di un giudizio possa dimettersi, abbandonando di fatto la Casa Bianca a metà del suo primo mandato presidenziale.

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