Uno dei punti chiave del discorso di insediamento di Donald Trump è stato il protezionismo. Vediamo quali effetti potrà avere il protezionismo trumpiano sull’economia americana.
Donald Trump e il protezionismo - Uno dei temi chiave dell’attesissimo discorso di insediamento a Presidente degli Stati Uniti di Donald Trump è stato quello del protezionismo.
Durante i diciotto minuti di discorso il neo-presidente ha più volte citato e rinforzato lo slogan che aveva contraddistinto la sua campagna elettorale, l’efficace “America First” che era riuscito ad arrivare dritto alle pance della working class bianca americana.
All’interno dell’inauguration speech lo slogan di Trump ha allo stesso tempo assunto i contorni di una minaccia indirizzata verso i principali paesi esportatori negli Stati Uniti, di tutte quelle aziende americane che nel corso degli anni hanno delocalizzato la propria produzione all’estero, nonché degli alleati che per interi decenni hanno potuto contare sull’appoggio militare degli Stati Uniti.
Donald Trump nel suo discorso di insediamento ha lasciato chiaramente intendere di essere intenzionato ad erigere alte mura tra i "suoi" Stati Uniti e tutto ciò che è all’esterno, sia dal punto di vista economico sia da quello razziale e diplomatico. L’intenzione dell’esecutivo di Trump è quella di proteggere i confini, le industrie e il commercio americano. Prendere decisioni solo ed esclusivamente nell’interesse degli Stati Uniti. Ma la chiusura di Trump a tutto ciò che è fuori confine secondo molti analisti potrà avere serie ripercussioni sui mercati, nonché sull’economia reale del paese.
Di seguito vediamo quali potranno essere gli effetti del protezionismo economico annunciato da Donald Trump durante il suo discorso di insediamento alla Casa Bianca.
Donald Trump e il protezionismo: le possibili ricadute sull’economia americana
Protezionismo è una delle parole chiavi di quella che si configura essere la politica economica dell’esecutivo americano targato Donald Trump. Il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti durante la campagna elettorale, e da ultimo nel suo discorso di insediamento, aveva più volte annunciato la sua intenzione a far ricorso a politiche protezioniste e di chiusura dei rapporti di scambio con i paesi esteri. Solo facendo leva sulla retorica "più posti di lavoro negli Stati Uniti" Donald Trump è convinto che l’economia statunitense possa ripartire.
Per questo Trump avrebbe intenzione di chiudere a riccio gli Stati Uniti, affinché ciò possa rendere possibile la creazione di nuovi posti di lavoro e rilanciare l’economia interna. Come però sottolinea sulle pagine del Fatto Quotidiano Sandro Trento, docente di economia all’università di Trento, il neo presidente farebbe bene a spiegare “agli americani che introdurre dazi, contingentamenti e protezioni contro i prodotti importanti avrebbe come conseguenza un aumento dei prezzi di gran parte dei prodotti in vendita nei negozi americani, dagli smartphone ai jeans, dalle televisioni ai Pc”.
Trump a più riprese ha fatto riferimento alla futura imposizione di dazi doganali di quasi il 50% sui prodotti provenienti dalla Cina. Se ciò venisse realizzato i prodotti importati subirebbero un rincaro tale che finirebbe per ripercuotersi direttamente sulle famiglie americane. Il protezionismo trumpiano, se realizzato, sarebbe infatti seguito da un aumento dei prezzi (risultato dell’alto costo della “manodopera”) e da una diminuzione dei salari reali, nonché da effetti a medio-lungo termine sull’occupazione.
Non solo le famiglie ma anche le imprese finirebbero vittime di un eventuale corso protezionista. Gran parte dei prodotti definiti “made in USA” vengono infatti assemblati o direttamente prodotti in aziende cinesi, vietnamite e messicane, dove il costo del lavoro, drasticamente più basso, consente alle imprese americane di generare enormi profitti. Colpire la produzione nei paesi “emergenti”, imponendo dazi e tariffe vorrebbe quindi dire colpire direttamente i profitti delle imprese americane.
Da ultimo, l’effetto di una eventuale chiusura degli Stati Uniti potrebbe inscenare un effetto muraglia da parte dei paesi asiatici, europei e latinoamericani che per "ripicca" potrebbero decidere di imporre, a loro volta, dazi e contingentamenti sui prodotti statunitensi.
Donald Trump e il protezionismo: l’arma efficace della “minaccia”
Ad oggi la retorica protezionista trumpiana sembra aver prodotto già i suoi effetti. Le minacce, velate ma nemmeno troppo, del neo-presidente degli Stati Uniti a ad alcune aziende americane intenzionate a delocalizzare o a investire nella produzione all’estero, nelle scorse settimane, hanno fatto tornare queste sui loro passi.
È il caso della decisione della Ford di rinunciare, sotto pressione di Trump, alla costruzione di un impianto da 1,6 miliardi di dollari in Messico virando verso un investimento da 700 milioni per il potenziamento di uno stabilimento in Michigan.
O ancora dell’annuncio da parte di Sergio Marchionne, amministratore delegato del gruppo Fiat Chrysler Automobiles (FCA), di destinare la cifra di un miliardo di dollari all’argamento di un impianto in Ohio “nell’interesse degli Stati Uniti”.
Stati Uniti già in cima alla classifica dei paesi più protezionisti
Se è vero che Donald Trump sia più che intenzionato a "isolare" gli Stati Uniti dalle "minacce" esterne, altrettanto vero è anche il fatto che gli Stati Uniti protezionisti lo siano già da prima di Trump.
L’America ad oggi risulta infatti essere, secondo un report di Credit Suisse intitolato "Getting Over Globalization", il paese più protezionista al mondo, ancor più di Russia, India e Cina.
Secondo quanto riportato dal report stilato da Credit Suisse, negli Stati Uniti le misure protezionistiche sarebbero nove volte superiori a quelle volte a liberalizzare il mercato internazionale.
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