Paesi in via di sviluppo: crisi del debito?

Chiara Puccioni

18 Gennaio 2016 - 09:15

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Crisi del debito, rallentamento della Cina, rialzi della Fed: si preannuncia un anno critico per i paesi in via di sviluppo

Paesi in via di sviluppo: crisi del debito?

Dopo la crisi dei mutui subprime del 2007, il tasso di crescita globale è stata trainato principalmente dai paesi emergenti, in contrapposizione con i paesi ricchi che frenavano la crescita, in USA con il problemi relativi al debito privato derivato dal settore immobiliare e in Europa con la crisi debito pubblico dei Paesi Membri. Ma il vento è cambiato e nel 2015 le economie dei paesi in via di sviluppo hanno subito una pesante fuga di capitali, e il rialzo dei tassi della Fed non può che aggravare questa tendenza. Il rallentamento dell’economia cinese e il correlato crollo del mercato delle materie prime hanno assestato, poi, un altro duro colpo. Il Brasile, la Russia, la Turchia e il Sudafrica sono i paesi più esposti, come confermano anche le perfomance dello scorso anno delle valute di questi paesi rispetto al dollaro. E a completare il quadro, incombe su molte economie emergenti una crisi del debito.

La crescita dei paesi in via di sviluppo subito successiva alla crisi finanziaria è infatti stata gonfiata dall’afflusso senza precedenti di credito nell’economia, sia da parte delle autorità nazionali (Cina) sia perché i capitali erano in fuga dai modesti rendimenti dei paesi europei. Secondo la J.P Morgan, in 7 anni il debito del settore privato nei mercati emergenti è cresciuto di circa il 46%, passando dal 73 al 107 per cento del PIL, o fino al 127 per cento, se si aggiunge il credito erogato dalle istituzioni finanziarie non bancarie. Debito privato che non è detenuto in larga parte dalle famiglie, come accadeva negli USA, ma piuttosto dalle aziende. Secondo il Global financial stability report del Fondo Monetario Internazionale pubblicato nell’ottobre 2015, il debito delle imprese nei paesi emergenti è quadruplicato dal 2003 al 2014, passando da meno del 50% a quasi il 75% del PIL, con un ruolo importante giocato dalle aziende nel settore del petrolio e del gas. Un aumento del debito delle imprese però non ha visto crescere la loro redditività, che al contrario è diminuita, per cui è probabile che invece di rispecchiare un naturale andamento dei risparmi verso le opportunità d’investimento più vantaggiose, questo accumulo di crediti rispecchi una fase di prestiti indiscriminati e debiti che diventeranno insoluti.

La categoria dei paesi in via di sviluppo tuttavia è piuttosto ampia e articolata, per cui per capire che tipo di effetti ci possiamo aspettare, secondo il Global Emerging Markets Economist della Morgan Stanley, bisogna per lo meno differenziare in due grandi categorie: i mercati emergenti “classici” e quelli “nuovi”.
Nel primo caso si ha solitamente un deficit della bilancia commerciale (le importazioni superano le esportazioni) e una tendenza all’inflazione, che i governi devono tenere sotto controllo con un’accurata gestione del proprio tasso di cambio, bilanciando la necessità di stimolare le esportazioni. In questi paesi, la crescita è trainata dall’afflusso di capitali stranieri. Se questi invece cominciano a tornare verso gli USA, grazie all’aumento dei tassi della FED, aumenta l’inflazione e la nazione in questione deve aumentare i tassi sia per arginare l’inflazione sia per evitare la fuga dei capitali. Un aumento dei tassi rende però più oneroso il debito pubblico.
Una seconda categoria di paesi emergenti (per intenderci, come la Cina ed altre economie asiatiche), invece, ha un abbondante avanzo nella bilancia commerciale, ingenti riserve di valuta estera, forte debito privato (ma non pubblico) e un eccesso di capacità produttiva con un conseguente rischio di deflazione. In questo caso una possibile fuga di capitali gioca un ruolo molto meno importante, ma i problemi causati dall’eccesso di debito, poiché più facilmente controllabili, possono avere un effetto molto più duraturo anche se più modesto.

Oggi i paesi in via di sviluppo rappresentano il 58% circa del PIL mondiale (misurando i tassi di cambio a parità di potere d’acquisto), ed è evidente che un eventuale crisi del debito di molti di questi paesi non può non avere effetto sull’economia globale, in particolare sull’Europa, minando la sua già fragile ripresa.

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