Mercati emergenti: accumulati quasi 3.000 miliardi di dollari per contrastare il tapering. Quali sono i paesi più a rischio?

Nicola D’Antuono

3 Giugno 2014 - 08:18

Circa un anno fa iniziò una tempesta finanziaria sui mercati emergenti. Oggi lo scenario si è stabilizzato, ma qualche paese potrebbe essere ancora a rischio

Mercati emergenti: accumulati quasi 3.000 miliardi di dollari per contrastare il tapering. Quali sono i paesi più a rischio?

Esattamente un anno fa i mercati emergenti hanno sperimentato un pericoloso scossone finanziario, che ha fatto tornare a galla vecchi fantasmi del passato risalenti alla crisi del Sud-Est asiatico del 1997, al default della Russia del 1998 e dell’Argentina sul finire del 2001. La crisi dei paesi emergenti era stata provocata dall’annuncio da parte dell’ex governatore della Federal Reserve, Ben Bernanke, relativamente al graduale abbandono del piano di stimoli monetari da oltre mille miliardi di dollari all’anno a partire da fine 2013. Per i paesi emergenti è iniziata una grave crisi finanziaria, che ha visto molte valute crollare senza freni sui minimi storici, le economie rallentare bruscamente e i capitali esteri uscire in massa. Tanti paesi si sono dovuti affrettare ad alzare i tassi di interesse su livelli record (in particolare Brasile, India e Turchia) per evitare una massiccia fuga di denaro estero, in grado di svuotare quasi completamente i forzieri delle banche centrali nazionali.

Sul finire del primo trimestre del 2014 la crisi finanziaria e valutaria di questi paesi è terminata, ma secondo alcuni esperti potrebbero esserci nuovi scossoni. La domanda che si pongono gli investitori, che sono tornati a scommettere sui rampanti paesi emergenti, è la seguente: “C’è da fidarsi oppure qualche paese è ancora troppo vulnerabile agli shock esogeni?”. Secondo Bloomberg i 12 principali mercati emergenti (Cina esclusa) hanno accumulato riserve in valuta estera per 2.970 miliardi di dollari: si tratta del dato maggiore da quando è iniziata la rilevazione nel 2008. Un paese additato dagli esperti tra i più vulnerabili agli stimoli monetari della FED e agli shock finanziari globali è l’India, dove si è insediato da poco il nuovo premier nazionalista hindù Narendra Modi, che ha trionfato alle elezioni politiche.

Il subcontinente ha portato le sue riserve valutarie a 315 miliardi di dollari, ovvero 6 miliardi in meno rispetto ai top di settembre 2011. Gli specialisti di Bank of America Merrill Lynch ritengono che questo cuscinetto non sia sufficiente per affrontare adeguatamente una nuova crisi valutaria e finanziaria, in quanto si riuscirebbe a mala pena a importare beni e servizi per 8 mesi. L’istituto di credito statunitense sottolinea che l’attuale tasso di copertura sarebbe il più bassa dal 1996. Secondo BofA Merrill Lynch, la Reserve Bank of India dovrebbe accumulare almeno altri 80 miliardi di dollari in due anni per ripristinare il corretto valore delle riserve. Oggi la rupia indiana si è stabilizzata sui mercati valutari, dopo aver toccato i minimi storici sul finire di agosto 2013.

Il tasso di cambio USD/INR era volato a 69,22, ma poi si è risollevato scendendo fino a 58,24 ai minimi da fine giugno 2013. Il cambio sta ora tentando di riportarsi in area 60. Il deprezzamento del cambio potrebbe arrestarsi, considerando anche la necessità per la Reserve Bank of India di accumulare altre decine di miliardi di dollari. Secondo gli analisti valutari di Goldman Sachs, il tasso di cambio dollaro/rupia potrebbe stabilizzarsi a 61 entro fine anno. Dai minimi storici di agosto scorso la rupia indiana vale il 17% in più sul dollaro americano, ma questo trend ascendente per la valuta asiatica potrebbe subire una brusca battuta d’arresto se dovesse esserci un nuovo scossone sugli emergenti. Tra l’altro l’India deve fare i conti con un problema non di poco conto: l’inflazione in forte aumento e il costante deficit delle partite correnti.

Accesso completo a tutti gli articoli di Money.it

A partire da
€ 9.90 al mese

Abbonati ora

Iscriviti a Money.it