La crisi dell’Eurozona è finita? Sì e no. Il Financial Times ci spiega il perché

Erika Di Dio

20 Febbraio 2013 - 13:22

La crisi dell’Eurozona è finita? Sì e no. Il Financial Times ci spiega il perché

La crisi della zona euro è finita? La risposta è: "sì" e "no". Sì, i rischi di una crisi immediata si sono ridotti. Ma no, la sopravvivenza della moneta non è ancora certa. Fino a quando questo sarà vero, rimarrà la possibilità di rinnovato stress.

Il miglior indicatore della ripresa della fiducia è la diminuzione dello spread dei tassi d’interesse tra i titoli di stato dei paesi vulnerabili e i Bund tedeschi. Gli spread irlandesi, per esempio, erano solo a 205 punti base lunedi, rispetto ai 1125 punti di Luglio 2011. Gli spread portoghesi sono a 465 punti base, mentre anche gli spread greci sono a 946 punti base, in calo dai 4680 punti di Marzo 2012. Gli spread italiani e quelli spagnoli sono stati portati ai livelli relativamente bassi di 278 e 362 punti base, rispettivamente.

Dietro a questo miglioramento, troviamo tre realtà. La prima è il desiderio della Germania di mantenere intatta la zona euro. La seconda è la volontà dei paesi vulnerabili di rimanere attaccati alle politiche richieste dai creditori. La terza è stata la decisione della Banca centrale europea di annunciare iniziative audaci, nonostante l’opposizione della Bundesbank. Tutto questo ha permesso una corsa gloriosa per gli speculatori.

Eppure non è la fine della storia. L’unione valutaria dovrebbe essere un’unione monetaria irrevocabile. Anche se si tratta di una cattiva unione, questa può ancora sopravvivere più a lungo di quanto molti pensavano, perché i costi del "divorzio" sono altissimi. Quindi l’Eurozona è una cattiva unione. Può trasformarsi in una buona unione?

Una buona unione è quella in cui i "coniugi" rientrerebbero, anche se avessero la possibilità di ricominciare tutto da capo. Sicuramente, molti membri si rifiuterebbero di farlo oggi, perché si trovano all’interno di un incubo di miseria e di cattiva volontà. Nel quarto trimestre dello scorso anno, il prodotto interno lordo aggregato dell’Eurozona era ancora il 3% al di sotto del picco pre-crisi, mentre il Pil degli Stati Uniti era del 2,4% al di sopra di esso. Nello stesso periodo, il PIL italiano era a livelli visti per l’ultima volta nel 2000 e del 7,6% al di sotto del picco pre-crisi. In Spagna, il PIL era del 6,3% al di sotto del picco pre-crisi, mentre il suo tasso di disoccupazione aveva raggiunto il 26%. Tutte le economie in crisi, ad eccezione dell’Irlanda, sono in declino da anni. L’economia irlandese è sostanzialmente stagnante. Anche in Germania il PIL era solo dell’1,4% al di sopra del picco pre-crisi, il suo potere di esportazione indebolito dal declino dei suoi principali partner commerciali.

Se tutti i membri della zona euro si riunissero felicemente oggi, sarebbero estremi masochisti. Si può discutere anche del fatto che forse neanche la Germania sta davvero meglio al suo interno: si, è diventata un esportatore campione e gestisce grandi eccedenze esterne, ma i salari reali e i redditi sono stati comunque repressi.

Come trasformare questa unione

Che cosa, allora, deve accadere per trasformare questo "cattivo matrimonio" in uno buono? La risposta ha due elementi:

  • la gestione di un ritorno alla salute economica il più rapidamente possibile,
  • e l’introduzione di riforme che rendano improbabile una ripetizione del disastro.

I due elementi sono legati: più plausibile diventa la salute a lungo termine, più veloce dovrebbe essere il recupero di oggi.

Un ritorno alla salute economica ha tre componenti correlati:

  • la cancellazione del debito impagabile ereditato dal passato,
  • il riequilibrio,
  • e il finanziamento degli squilibri di oggi.

Nel considerare fino a che punto tutto questo potrebbe funzionare, presumo che la ripartizione dei rischi e i trasferimenti fiscali connessi con le tipiche federazioni non accadranno nella zona euro. La zona euro finirà più integrata di prima, ma molto meno integrata rispetto ad Australia, Canada o Stati Uniti.

Sulla cancellazione del debito, sarà necessario più di quanto fatto per la Grecia. Inoltre, quanto più l’onere dell’aggiustamento è imposto a paesi colpiti dalla crisi con la caduta dei prezzi e dei salari, maggiore è l’onere reale del debito e più grande sarà la necessaria cancellazione. Le remissioni dei debiti rischiano di essere necessarie sia per i debiti sovrani che per le banche. La resistenza a riconoscere questo è immensamente forte. Ma può essere inutile.

Un viaggio ancora lungo e duro

Il viaggio verso la regolazione e la ripresa della crescita è ancora più importante. Sarà duro e lungo. Supponiamo che l’economia spagnola e quella italiana cominciassero a crescere dell’1,5% l’anno, cosa di cui dubito. Bisognerebbe aspettare ancora fino al 2017 o al 2018 prima di tornare ai picchi pre-crisi: 10 anni persi. Inoltre, ancora non è chiaro cosa dovrebbe guidare tale crescita. L’offerta potenziale non garantisce di per sé la domanda effettiva.

La politica fiscale è restrittiva. I paesi che soffrono di sbalzi di debito del settore privato, come la Spagna, è improbabile che vedranno una ripresa del credito, dei prestiti e della spesa nel settore privato. La domanda esterna sarà debole, soprattutto perché molti membri stanno adottando politiche di contrazione allo stesso tempo. Anche perché non è affatto chiaro il fatto che la competitività dei paesi colpiti dalla crisi sia effettivamente migliorata, tranne nel caso dell’Irlanda, come Capital Economics ha spiegato recentemente in una nota. In effetti, l’evidenza suggerisce che la competitività esterna dell’Italia stia peggiorando, rispetto a quella della Germania. Sì, il disavanzo delle partite esterne si è ridotto. Ma molto di questo è dovuto alla crisi che si è subita.

Nel frattempo, il finanziamento da parte della BCE, anche se sufficiente per impedire un crollo improvviso, aveva bisogno di una rapida stretta fiscale. I risultati sono stati tristi. In una recente lettera ai ministri, Olli Rehn, vice-presidente della Commissione europea, responsabile di economia e di affari monetari, ha condannato i dubbi recenti del Fondo monetario internazionale in materia di moltiplicatori fiscali definendoli "non utili". Questo, mi pare, è indice di accresciuta sensibilità. Invece di ascoltare il parere di un saggio "consulente matrimoniale", le autorità l’hanno respinto.

Previsioni

Coloro che credono che i problemi della zona euro siano ormai alle spalle, devono assumere o uno straordinario dietrofront economico o la volontà di chi è intrappolato in profonde crisi di continuare a tener duro, anno triste dopo anno triste. Nessuna ipotesi appare del tutto plausibile. Inoltre, le prospettive per riforme auspicabili di più lungo termine, sembrano abbastanza remote. Molto più probabile è un’unione fondata su un solo lato. Quindi, le parti vivranni felici e contenti o questa unione continuerà ad essere caratterizzata da differenze inconciliabili? La risposta sembra evidente, almeno per me. Se è così, questa infelice storia non può ancora essere finita.

Traduzione italiana a cura di Erika Di Dio. Fonte: Financial Times

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