“Il solo salario minimo non è la soluzione alle problematiche retributive”. Intervista al giuslavorista Stefano Bellomo

Teresa Maddonni

09/03/2020

26/08/2020 - 10:23

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Il salario minimo è al centro della discussione del governo giallo-rosso. Sulla questione Money.it ha intervistato il prof. Stefano Bellomo, ordinario di Diritto del Lavoro nell’Università Sapienza di Roma.

“Il solo salario minimo non è la soluzione alle problematiche retributive”. Intervista al giuslavorista Stefano Bellomo

Salario minimo: se n’è tornato a parlare nelle ultime settimane e della proposta di legge voluta e sostenuta dal Movimento 5Stelle.

I tavoli di governo sul salario minimo nel mese di febbraio tra la ministra del Lavoro Nunzia Catalfo e i rappresentanti della maggioranza LeU, PD e Italia Viva hanno riportato al centro la questione del salario minimo.

La proposta dei 5 Stelle prevede un salario minimo orario con una soglia non inferiore ai 9 euro l’ora lordi, ma non sembra convincere LeU e Italia Viva.

Inizialmente accantonata per optare per una soglia non inferiore al 70% della media delle retribuzioni stabilite dai contratti collettivi principali, la ministra Catalfo è tornata poi a riconsiderare il salario minimo orario di 9 euro lordi.

Una proposta che non piace al partito di Matteo Renzi e a LeU che solleva obiezioni sulla necessità di salvaguardare il ruolo delle parti sociali, vale a dire i sindacati.

Il processo di discussione è in divenire e l’emergenza di coronavirus ha fatto passare un po’ in sordina la questione. In attesa che vi siano sviluppi e che il governo faccia le sue scelte noi di Money.it abbiamo intervistato Stefano Bellomo, giuslavorista, ordinario di Diritto del Lavoro nel Dipartimento di Scienze Giuridiche della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma Sapienza.

Esperto della materia, si è occupato anche di salario minimo: tra le sue pubblicazioni si annovera il saggio su “Il compenso orario minimo: incertezze ed ostacoli attuativi della ipotizzata alternativa “leggera” al salario minimo legale, in Commentario breve alla riforma “Jobs Act” (a cura di G. Zilio Grandi e M. Biasi, Wolters Kluwer, Milano, 2016, 805 ss.)”.

Professor Bellomo, secondo il suo punto di vista quanto può essere efficace il salario minimo, anche nella soglia dei 9 euro prevista dal M5S?

Dobbiamo partire da una premessa importante, ossia che la nostra Costituzione affida la regolazione delle dinamiche retributive a due categorie di fonti e a due autorità. Da una parte affida la regolazione della retribuzione proporzionata e sufficiente alla legge e lo fa riconoscendo il diritto alla giusta retribuzione che i giudici hanno continuato ad applicare con una giurisprudenza che data dal periodo immediatamente successivo all’entrata in vigore della Costituzione fino a oggi.

Ma le dinamiche retributive vengono regolate e costituiscono la materia nella quale interviene naturalmente la contrattazione collettiva. Non è solo la legge quindi che può regolare integralmente le dinamiche retributive, ma fisiologicamente lo strumento legislativo, ammesso e non concesso che sia studiato, elaborato ed emanato, deve coordinarsi con la contrattazione collettiva. Questo anche perché le organizzazioni sindacali, nel definire per via negoziale i trattamenti retributivi, esercitano le prerogative che le sono riconosciute dall’articolo 39 della Costituzione.

Quindi le due fonti, legge e contrattazione collettiva, devono necessariamente convivere e coesistere. Fino a oggi questa complementarietà è stata assicurata dalla giurisprudenza perché i giudici che sono stati chiamati a verificare e a stabilire il trattamento retributivo proporzionato e sufficiente hanno svolto tale funzione prendendo costantemente come riferimento le tabelle retributive introdotte dalla contrattazione collettiva.

Uno strumento legislativo di determinazione del salario minimo sia esso la fissazione di una soglia minima legale, sia esso l’affidamento a un soggetto istituzionale come una commissione di esperti indipendenti, come accade in altri sistemi, deve quindi essere necessariamente rispettoso delle prerogative della contrattazione collettiva.

Ai fini del governo efficiente delle dinamiche retributive si possono avere dei dubbi che una legge sul salario minimo sia di per sé risolutiva proprio perché definendo la soglia minima salariale non potrebbe coprire con il suo contenuto regolativo tutto il ventaglio dei trattamenti retributivi che normalmente vengono graduati per i lavoratori sulla base degli inquadramenti definiti dalla contrattazione collettiva.

Quest’ultima, peraltro, non sempre appare in grado di fornire delle indicazioni sufficientemente univoche, in considerazione delle tendenze di destabilizzazione dell’assetto delle relazioni industriali che si riscontrano in alcuni settori. Esiste un fenomeno, talvolta ascrivibile all’associazionismo datoriale, di separatismo e di costituzione ex novo di associazioni datoriali, nonché un’area di contrattazione collettiva antagonista o “pirata” che pur interessando una frazione minoritaria dei lavoratori, dà comunque luogo a delle distorsioni importanti.

La risposta a queste criticità può essere data da una legge sul salario minimo?

Una legge dedicata alla materia salariale che pretenda di individuare i criteri per quantificare il giusto salario di tutti i lavoratori o che introduca anche dei criteri di selezione del parametro retributivo da adottare agganciato a quelli della contrattazione collettiva, potrebbe porre problemi di coerenza e di conformità alle previsioni contenute nell’articolo 39 della Costituzione.

Tale intervento potrebbe infatti prestarsi ad essere letto come un’attribuzione di efficacia generalizzata a parte del contratto collettivo, al di fuori del meccanismo che l’articolo 39 seconda parte della Costituzione prefigura ed impone come percorso obbligato.

E i sindacati come si pongono?

Ci sono alcuni ulteriori profili sui quali è opportuno riflettere quando si ragiona di questo tema: il primo verte esattamente sul punto di vista delle organizzazioni sindacali.

Le confederazioni di più radicata tradizione e di più vasta diffusione, penso alle posizioni espresse dalla UIL e della CISL ad esempio, continuano ad esprimere l’idea che l’efficiente regolazione delle dinamiche retributive non possa non continuare ad essere affidata in prima battuta alla contrattazione collettiva, ponendo in guardia il legislatore dalla tentazione di ricorrere a meccanismi di determinazione dei salari che non siano strettamente agganciati alla contrattazione.

Ribaltando semmai la prospettiva di intervento le parti sociali lasciano intendere che una legge sulla rappresentatività misurata e sull’attribuzione di efficacia ai contratti collettivi, rappresenterebbe la via maestra per risolvere i problemi della sufficienza dei trattamenti retributivi perché permetterebbe di arginare quei fenomeni che vengono definiti di dumping o di shopping contrattuale causati dalla diffusione di una moltitudine di contratti collettivi siglati da organizzazioni aventi un seguito ridottissimo.

Vale a dire?

Mi riferisco all’eventualità, allo stato non preclusa dalla legge, che i datori di lavoro possano far riferimento a contratti collettivi che, seppur depositati presso il Cnel, come stabilisce una legge del 1985, sono stipulati da organizzazioni sindacali che hanno tassi di affiliazione molto bassi e che, dunque, esprimono una rappresentatività scarsa o nulla.

L’effettività dell’azione rappresentativa di questi soggetti non è comparabile con quella posta in essere dalle organizzazioni sindacali storiche.

Immaginare un intervento sul salario minimo che intenda bypassare o addirittura pretenda di sostituire la legge sulla rappresentanza è un approccio che suscita grandi riserve sia sul carattere formale, perché sconta inevitabilmente problema di compatibilità con l’articolo 39 della Costituzione, quanto sul piano sociale, perché sarebbe un intervento che in qualche modo procede in una direzione contrastante con quelli che sono gli orientamenti delle parti sociali.

La seconda tematica qual è?

C’è, poi, un ulteriore problema che verte e si indirizza sul versante quantitativo, che presenta margini di sorprendente oscillazione: 8 euro, 7 euro, 9 euro. La soglia minima del salario è sì una decisione politica, ma che dovrebbe essere preceduta da studi e valutazioni estremamente attente sul piano economico.

Catalfo parlava di salario minimo ma allo stesso tempo di rafforzamento della contrattazione collettiva. Come sono conciliabili: se la legge sul salario minimo va a svilire la contrattazione, come si può pensare di rafforzarla?

È difficile immaginare un percorso che orienti o meglio vincoli gli stakeholders a scegliere un contratto collettivo piuttosto che un altro che non sia realizzato nel rispetto dei tragitti attuativi del secondo comma dell’articolo 39 (“I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce” n.d.r.).

Da questo punto di vista condivido le sue perplessità perché rafforzare la contrattazione collettiva al di fuori di una legge sulla rappresentanza e affidando alla parte pubblica il compito di orientare la scelta del contratto collettivo sconta il pericolo di un contrasto con il principio di libertà sindacale.

Pensare invece un salario minimo che vada a tutelare per esempio le partite IVA o altre tipologie di lavoratori non coperti da contrattazione?

Ci potrebbe essere l’opportunità di intervento in termini chiarificatori su una norma che già esiste il decreto legge 81/2015, uno dei decreti attuativi del cosiddetto Jobs Act che definisce il cosiddetto lavoro etero organizzato e stabilisce che ai rapporti dei collaboratori nei quali vi sia una ingerenza rilevante del potere organizzativo del committente si applichino le norme sul rapporto di lavoro subordinato. (art. 2 n.d.r.).

Però bisogna dire che quali siano effettivamente, rispetto alla vastità di norme che regolano il lavoro subordinato, quelle applicabili a questi rapporti, è qualcosa che rimane incerto nonostante una recente sentenza della Corte di Cassazione si è riproposta di fare luce su questa tematica che ha lasciato alcuni coni d’ombra.

Da questo punto di vista un intervento che vada a “perimetrare” le norme sul lavoro subordinato che debbono trovare applicazione anche ai collaboratori etero organizzati quindi individuando tra queste per esempio i trattamenti retributivi equiparati a quelli erogati ai lavoratori subordinati, potrebbe avere da una parte delle ricadute positive sul piano sociale per questi collaboratori, dall’altro arrecherebbe anche un importante contributo alla chiarezza quadro normativo.

Pare che nell’ultimo anno siano aumentate le partite IVA, potrebbe essere anche un effetto del decreto dignità?

Dovremmo esaminare più attentamente le analisi del mercato del lavoro per affermare se c’è un effetto di sostituzione di rapporti di lavoro subordinato con rapporti di lavoro appartenenti a diverse tipologie.

Anche l’incertezza sul significato della norma sul lavoro etero organizzato di cui sopra potrebbe aver orientato le parti verso l’adozione di fisionomie del rapporto di lavoro che lascino meglio intendere l’esistenza di forti margini di autodeterminazione.

Ricordiamoci che l’elemento estrinseco della titolarità della partita Iva è un elemento che da solo non qualifica il rapporto e quindi potrebbe essere in qualche modo un escamotage per mascherare rapporti di lavoro che nella loro natura giuridica sono in realtà rapporti etero organizzati o rapporti subordinati.

Non a caso si parlava qualche mese fa anche di un aumento delle partite Iva fittizie.

Quella della natura simulata o meno di una determinata qualificazione è una conclusione alla quale è possibile pervenire solo al termine del procedimento giudiziale. Però è ben possibile che ci potrebbe essere la tentazione delle parti di allontanarsi anche dalle forme contrattuali che ordinariamente hanno qualificato i rapporti parasubordinati, ma si tratta di fenomeni degenerativi di elusione. Fenomeni questi destinati a trovare una repressione giudiziaria se le parti decideranno di ricorrere alle relative tutele.

Ritornando un attimo al Decreto dignità che abbiamo nominato: potrebbe questo aver creato una maggiore rigidità del mercato del lavoro disincentivando, anziché favorendo, i contratti di lavoro a tempo indeterminato?

Anche questa è una valutazione da lasciare a chi opera le rilevazioni quantitative del mercato del lavoro. Si può dire che sul piano esperienziale il Decreto dignità 87/2018 convertito nella Legge 96/2018 non sembra aver semplificato i percorsi di accesso al mercato del lavoro e di uscita dalla precarizzazione.

Non pare che questo risultato sia stato conseguito perché in periodo di impiego di 12 mesi a tempo indeterminato come quello previsto dal decreto in molti casi non è ritenuto sufficiente, nella pratica, per un adeguato inserimento lavorativo.

C’è stata anche una concomitanza di situazioni che ha accentuato gli effetti dissuasivi rispetto alle assunzioni stabili. Una delle intenzioni del legislatore nel momento in cui ha emanato questo provvedimento era quella di favorire le assunzioni a tempo indeterminato anche in considerazione e alla luce delle riforme del regime sanzionatorio dei licenziamenti che erano state introdotte dal decreto 23/2015, con la previsione del risarcimento proporzionale agli anni di servizio in caso di licenziamento ingiustificato e la delimitazione delle ipotesi di licenziamento solo ai casi di più pesante illegittimità (licenziamenti discriminatori, ritorsivi o evidentemente pretestuosi).

Solo che questa misurabilità economica dei costi del licenziamento è venuta meno a seguito della sentenza della Corte Costituzionale che oggi legittima il giudice a quantificare caso per caso la cifra del risarcimento fino a raggiungere la soglia delle 36 mensilità.

Non è da escludere che anche questo ampliamento potenziale e difficilmente quantificabile dei costi del licenziamento illegittimo possa aver ridimensionato quell’effetto promozionale delle forme contrattuali a tempo indeterminato che con il cosiddetto Decreto dignità intendeva perseguire.

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