Export Germania: il saldo delle partite correnti e le cause nascoste della recessione europea

Simone Casavecchia

19 Gennaio 2015 - 14:07

Il Centro Studi di Confindustria torna a puntare lo sguardo su una delle più grandi anomalie dell’Eurozona: il surplus delle esportazioni della Germania che supera le soglie previste dall’UE da 8 anni.

Export Germania: il saldo delle partite correnti e le cause nascoste della recessione europea

Il Centro Studi di Confindustria ha recentemente puntato il suo sguardo su un problema già da molto tempo all’attenzione delle istituzioni europee e internazionali e degli operatori finanziari: il surplus di esportazioni della Germania che è molto superiore alla soglia prevista dai trattati europei. In una giornata in cui l’attenzione è canalizzata sulle future scelte della BCE a proposito dell’imminente varo del QE, previsto nella prossima riunione del board del 22 Gennaio, sono i dati relativi alla bilancia dei pagamenti dell’Eurozona resi noti da Eurostat a dover far riflettere sulla questione richiamata dal Centro Studi di Confindustria (Csc), ovvero non la sola crescita tedesca ma la crescita dell’intera Eurozona.

Mentre le esportazioni complessive dell’Eurozona diminuiscono quelle della Germania confermano un trend che ha una vita lunga più di 10 anni. Dal 2002, infatti, la differenza tra le esportazioni e le importazioni della Germania supera il 7% del suo PIL; dal 2007, ovvero da ben 8 anni, questa pratica è portata avanti in chiaro contrasto con la normativa comunitaria che prevede che il saldo positivo generato nella media di tre anni non possa essere superiore al 6% del PIL di un Paese.

La Germania non solo continua a non rispettare questo parametro, pensato per evitare squilibri consistenti tra i singoli stati europei, ma sembra non voler neanche demordere da questo atteggiamento, dal momento che, già dal 2013 è stata invitata a correggere questo parametro dalla Commissione Europea e ha ricevuto, in merito, critiche sia dagli USA che dal fondo monetario internazionale.

Un atteggiamento del tutto controproducente per l’Eurozona dal momento che, secondo il Centro Studi di Confindustria, il saldo delle partite corrente in percentuale del PIL è rimasto sostanzialmente invariato (7,1%) a livelli che possono essere considerati insostenibili non solo per le regole europee ma anche dal punto di vista della teoria economica. Il risultato è quanto mai chiaro secondo il Csc: una

"perdita di benessere per tutti"

dal momento che se la Germania continua a esportare e a creare ricchezza per sé stessa, con questo stessa politica frena le esportazioni degli altri Paesi dell’area euro e incrementa gli squilibri già presenti in Europa anziché attenuarli. Le esportazioni eccessive della Germania si configurano, quindi, come uno dei fattori per cui le economie più periferiche (Italia compresa) non sono ancora riuscite a uscire dalla crisi, attraverso quella che potrebbe essere una delle strade maestre per lasciarsela alle spalle, ossia le esportazioni stesse.

Tra gli effetti di questa politica bisogna ricomprendere anche quella deflazione, ormai considerata la bestia nera da combattere con il quantitative easing: i Paesi dell’Eurozona, infatti, per rimanere competitivi hanno dovuto ridurre i prezzi dei beni esportati e ciò ha avuto l’effetto di una correlata riduzione degli standard economici e, in definitiva, della domanda.

L’uscita dalla crisi passa anche attraverso il controllo degli squilibri commerciali attraverso politiche con le quali i paesi esportatori dovrebbero aiutare i paesi importatori a risanare i loro conti e ciò dovrebbe essere una pratica ancor più consolidata in quella che si chiama una comunità economica. A tal proposito la Germania, in momento in cui l’Europa rischia di perdere il primo dei suoi pezzi, avrebbe molto da imparare dagli Stati Uniti che da anni hanno mantengono il loro saldo delle partite correnti negativo rispetto al PIL, configurandosi come Paese importatore che immette ricchezza e, allo stesso tempo, concede a molti altri Paesi la possibilità di esportare, svolgendo quella funzione di riequilibrio dell’economia mondiale, ritenuta fondamentale già dal anni Trenta del secolo scorso.

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