L’economia inglese non è così forte come sembra

Marco Ciotola

13 Aprile 2018 - 15:26

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La sfida vinta contro le pessime previsioni post-Brexit può confondere. Lo scenario attuale vede l’economia del Regno Unito in netto ritardo rispetto ai Paesi dell’eurozona.

L’economia inglese non è così forte come sembra

A un anno dall’abbandono definitivo dell’Unione europea, l’economia britannica ha evitato gli scenari catastrofici previsti dopo il voto sulla Brexit. Eppure, non c’è da lasciarsi andare a facili entusiasmi.

È vero, la produzione è aumentata ogni trimestre dopo il referendum per uscire dall’UE, con una crescita dell’1,8% nel 2017. Un dato che supera abbondantemente le previsioni pessimistiche realizzate all’indomani del referendum dal Tesoro britannico e non solo.
Ci sono poi altre buone notizie: la disoccupazione è vicina a raggiungere i suoi minimi dagli anni ’70, l’inflazione sta calando e il Brexit Barometer di Bloomberg, che tiene traccia di 22 indicatori economici, è al massimo da 17 mesi.

Ma il rischio è che i risultati migliori del previsto possano distrarre dagli squilibri nell’economia britannica, e dalla relativa sottoperformance in un contesto internazionale.

Secondo Dan Hanson, di Bloomberg Economics, malgrado la resilienza del Regno Unito negli ultimi 18 mesi sia stata estremamente gradita - soprattutto in relazione al mercato del lavoro - graffiando in superficie non si può fare a meno di chiedersi quanto durerà; le famiglie non possono spendere all’infinito e a un certo punto la crescita globale rallenterà. Inoltre la crescita della produttività non è riuscita a riemergere in modo significativo nell’ultimo decennio, e finché non lo farà “l’economia non andrà da nessuna parte”.

In effetti, l’espansione britannica, pur se molto più forte rispetto alle previsioni, non si è avvicinata neanche al fondo delle classifiche dei G7 dello scorso anno. Nella vicina area dell’euro, la crescita è stata la migliore del decennio e ha superato le previsioni molto più di quanto abbia fatto quella del Regno Unito.

Anche gli Stati Uniti vengono da un anno di solide performance, con l’aspettativa che i tagli fiscali del presidente Trump possano sostenere ulteriormente l’espansione del 2018. Il FMI ha dichiarato a gennaio che la ripresa globale è stata la più ampia negli ultimi sette anni, con una crescita più rapida in 120 paesi - che rappresentano i tre quarti della produzione mondiale.

Questo porta dritti alla questione - evidenziata dall’Istituto Nazionale di Ricerca Economica e Sociale e da altri - che il boom del continente e del resto del mondo ha aiutato gli Stati Uniti proprio mentre la Gran Bretagna decideva di fare da sola.
Si stima che la crescita dell’economia mondiale abbia aggiunto circa 0,6 punti percentuali al PIL del 2017.

Anche la domanda interna ha favorito la crescita lo scorso anno, malgrado l’inflazione che non ha certo aiutato i consumatori. Nonostante un rallentamento della crescita, la domanda si è rivelata più forte del previsto, perché il solido mercato del lavoro ha dato alle famiglie la fiducia necessaria per indebitarsi di più e risparmiare di meno.

Ma questo ha fatto sorgere preoccupazioni per un debito eccessivo, e per la sua relativa sostenibilità. Il debito va infatti ad aumentare la vulnerabilità alla crescita dei tassi d’interesse e pone il rischio di un’inversione di tendenza nel tasso di disoccupazione oggi al 4,3%. La Financial Conduct Authority del Regno Unito ha evidenziato questa settimana come persino un graduale aumento dei tassi di interesse potrebbe avere un impatto molto negativo sui consumatori che hanno grossi debiti.

Gli investimenti, nel frattempo, sono ostacolati dall’incertezza rispetto alla Brexit. La Bank of England stima che gli investimenti delle imprese siano sotto del 4% rispetto alla percentuale prevista nel caso in cui la Gran Bretagna non avesse votato per lasciare l’UE. I dati pubblicati mercoledì hanno mostrato che la produzione è diminuita a febbraio.

Il governatore della BoE, Mark Carney, ha dichiarato ai legislatori a gennaio che, visto l’ottimo stato dell’economia mondiale, le condizioni finanziarie agevolate e i bilanci solidi, gli investimenti sono molto al di sotto delle previsioni.
Tuttavia, ha notato che le cose potrebbero cambiare se le imprese avessero più certezze sulla Brexit, circostanza che si è almeno in parte verificata lo scorso 19 marzo sotto forma di un accordo di transizione. Un recente sondaggio di Deloitte ha mostrato che l’accordo ha favorito l’ottimismo del mercato - ora è la crescita debole il rischio più temuto, non più la Brexit.

Questa buona- cattiva notizia è evidenziata anche nel Brexit Barometer di Bloomberg. L’indicatore si trovava a quota 34,5 alla fine di marzo, sopra a dov’era il giorno prima del voto sulla Brexit e il giorno in cui è stato invocato l’articolo 50.

Nonostante questi dati indichino un’economia robusta in generale, i valori mensili intermedi sono stati sulle montagne russe. Un’analisi maggiormente concentrata sui diversi settori mostra che la situazione occupazionale è migliore, e l’incertezza del periodo post-referendum è a livelli bassi. Tuttavia, l’inflazione resta un freno, e l’attività economica è ai minimi da novembre 2016.

Per i responsabili delle politiche della BoE, uno dei maggiori impatti della Brexit è il danno arrecato alla crescita potenziale, il cosiddetto “limite di velocità” che l’economia può tollerare senza surriscaldarsi. La BoE ha quantificato questa percentuale all’1,5%, il che significa che anche il ritmo attuale è sufficiente a far ripartire i rialzi dei tassi d’interesse.

Tuttavia, l’incertezza sulla Brexit probabilmente manterrà i funzionari della BOE per ora su un percorso graduale, visti soprattutto i rischi per la crescita globale in arrivo da una preoccupante guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina.

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