Videosorveglianza al lavoro, tutti gli obblighi dell’azienda e i diritti dei dipendenti

Giorgia Dumitrascu

21 Agosto 2025 - 12:00

Come le aziende possono usare le telecamere in modo legittimo, quando scatta la violazione della privacy e quali sono i diritti dei lavoratori.

Videosorveglianza al lavoro, tutti gli obblighi dell’azienda e i diritti dei dipendenti

Una telecamera, installata con l’obiettivo dichiarato di migliorare l’organizzazione interna o prevenire eventuali rischi aziendali, potrebbe – spesso in modo del tutto involontario – diventare uno strumento di controllo a distanza dell’attività lavorativa, con conseguenze rilevanti sotto il profilo giuridico.

Basta che l’angolo di ripresa coinvolga direttamente le postazioni di lavoro, o che la conservazione delle immagini non sia adeguatamente regolamentata, per esporre l’azienda a rilievi ispettivi, segnalazioni da parte dei dipendenti e sanzioni.

Quando è legittimo installare la videosorveglianza in azienda?

“L’installazione di sistemi di videosorveglianza in azienda è legittima solo quando ricorrono esigenze specifiche e documentate.”

La legge ammette la presenza di telecamere nei luoghi di lavoro per tutelare il patrimonio aziendale, prevenire furti e danneggiamenti o garantire la sicurezza dei lavoratori e degli ambienti, in linea con le prescrizioni del D. lgs. n. 81/2008 in materia di sicurezza sul lavoro. Rientra tra le finalità lecite anche la tutela degli accessi, la prevenzione di atti vandalici e la tutela di dati e beni sensibili, purché la videosorveglianza non sia finalizzata al controllo diretto della produttività individuale dei dipendenti.
I principali riferimenti sono il Regolamento UE 2016/679 (GDPR) e il D. lgs. n. 196/2003 aggiornato dal D.lgs. n. 101/2018, oltre alle Linee Guida EDPB 3/2019.
L’art. 4 dello Statuto dei lavoratori l. n. 300/1970:

“vieta qualsiasi forma di controllo a distanza dei lavoratori salvo che, in presenza di esigenze organizzative, produttive, di sicurezza o di tutela del patrimonio, sia stato raggiunto un accordo sindacale oppure sia stata ottenuta una specifica autorizzazione dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro.”

Le Linee Guida EDPB 3/2019, sono il riferimento europeo in materia di videosorveglianza, sottolineano la necessità di rispettare il principio di minimizzazione e di adottare misure di privacy by design già in fase di progettazione dell’impianto. In quest’ottica, la progettazione degli impianti deve prevedere l’esclusione di aree come servizi igienici o spogliatoi, nonché la limitazione del numero di telecamere e degli angoli di ripresa alle sole aree strettamente necessarie.

Come si ottiene il permesso? Ruolo dei sindacati e dell’Ispettorato

Per installare telecamere nei luoghi di lavoro, la regola generale impone che l’installazione sia subordinata, ove siano presenti rappresentanze sindacali interne (RSU o RSA), alla stipula di un accordo sindacale che dettagli finalità, modalità di funzionamento, aree sorvegliate e tempi di conservazione delle immagini. In assenza di rappresentanze sindacali, o in caso di mancato accordo, il datore di lavoro deve rivolgersi all’INL (Ispettorato Nazionale del Lavoro), presentando un’ istanza corredata da relazione tecnica, planimetrie dei locali, descrizione dell’impianto, policy privacy e dettagli sulle misure adottate per la protezione dei dati.

L’autorizzazione da parte dell’INL viene rilasciata dopo una valutazione che tiene conto della proporzionalità delle misure rispetto alle finalità dichiarate, della conformità alle normative in materia di privacy e della presenza di eventuali rischi per i diritti dei lavoratori.
È opportuno precisare che:

“Il consenso del lavoratore non costituisce mai base giuridica per il trattamento dei dati tramite videosorveglianza sul luogo di lavoro. Infatti, il rapporto di subordinazione esclude che il consenso sia realmente libero e privo di condizionamenti.”

Come si installa un impianto a norma? Progettazione e privacy by design

L’installazione di un impianto di videosorveglianza comporta una progettazione che tenga conto fin dall’inizio dei principi di privacy by design e by default. Occorre individuare le aree da sorvegliare, limitando la raccolta delle immagini ai soli spazi effettivamente esposti a rischi (come ingressi, aree di stoccaggio, parcheggi aziendali), evitando la ripresa di aree vietate quali bagni, spogliatoi o locali adibiti a uso personale.

“Un impianto sovradimensionato, con un numero eccessivo di telecamere o con campi visivi troppo ampi, espone il datore di lavoro a sanzioni sia sotto il profilo privacy sia per la violazione dei diritti dei lavoratori.”

Inoltre, occorre individuare il titolare del trattamento dei dati, che in genere coincide con il legale rappresentante dell’azienda, e valutare se nominare un responsabile esterno (Data Processor/DPA) nei casi in cui la gestione tecnica, la manutenzione o la sorveglianza da remoto siano affidate a soggetti terzi. In tal caso, occorre formalizzare un accordo (Data Protection Agreement) che regola le responsabilità e i controlli sulle modalità di trattamento delle immagini.

L’informativa: cartelli, fac-simile Garante e obblighi di trasparenza

L’art. 13 del GDPR impone che:

“ Chiunque entri in un’area videosorvegliata sia preventivamente informato, attraverso cartelli ben visibili e affissi prima dell’area oggetto di ripresa, e non a posteriori o in punti inutili.”

La cartellonistica deve essere conforme al fac-simile ufficiale del Garante Privacy, e deve sempre riportare dati identificativi del titolare del trattamento, finalità delle riprese, riferimenti alla normativa applicabile e un contatto per esercitare i diritti privacy. Non è sufficiente usare modelli generici acquistati in ferramenta e lasciati incompleti.

Conservazione e accesso alle immagini: tempi, limiti e formazione

Le immagini raccolte devono essere conservate per il tempo strettamente necessario a perseguire la finalità per cui l’impianto è stato installato. Di regola, la conservazione non deve superare le 24-48 ore, fatta salva la possibilità di periodi più lunghi, sempre motivati e documentati attraverso una LIA (Legitimate Interest Assessment) che attesti la necessità di un’estensione, ad esempio chiusure aziendali o eventi eccezionali.

L’accesso alle immagini deve essere limitato esclusivamente ai soggetti autorizzati. Il trattamento dei dati da videosorveglianza deve essere inserito e descritto nel registro delle attività di trattamento previsto dall’art. 30 GDPR. In presenza di outsourcing o gestione da parte di terzi, il titolare è obbligato a formalizzare un accordo DPA (Data Protection Agreement) che disciplini con precisione ruoli, responsabilità, tempi e modalità di accesso ai dati.

Videosorveglianza illegittima: sanzioni e rischi per l’azienda

Sul piano amministrativo, il Garante per la protezione dei dati personali può irrogare sanzioni pecuniarie severe per le violazioni della privacy. L’art. 83 del GDPR prevede, a seconda della gravità e della natura della violazione, multe che possono arrivare fino a 20 milioni di euro o, per le imprese, fino al 4% del fatturato annuo mondiale, se superiore. Il Garante può, inoltre, ordinare la cessazione del trattamento illecito, la cancellazione dei dati raccolti in violazione e la rimozione degli impianti installati senza le dovute garanzie.

A ciò si aggiungono le sanzioni dell’INL, che può comminare ammende per la violazione dell’art. 4 Stat. Lav. L’installazione di impianti di videosorveglianza senza accordo sindacale o senza autorizzazione dell’INL, se prevista, comporta l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da 154 a 1.549 euro, aumentata in caso di recidiva, oltre all’eventuale ordine di disattivazione e rimozione delle telecamere. Dal punto di vista penale, l’art. 167 del D.lgs. n. 196/2003 punisce il trattamento illecito di dati personali: quando dal fatto deriva nocumento all’interessato o è realizzato per trarne profitto o arrecare danno, si applica la reclusione da 6 mesi a 1 anno e 6 mesi o la multa da 10.000 a 50.000 euro. La giurisprudenza più recente ha confermato che la violazione delle regole sulla videosorveglianza può integrare anche reati di interferenze illecite nella vita privata o abuso dei mezzi di correzione art. 571 c.p., a seconda della gravità delle condotte.

Sul piano civile, la mancata osservanza delle regole sulla videosorveglianza può comportare la responsabilità dell’azienda per il risarcimento dei danni subiti dai lavoratori, anche di natura non patrimoniale, in conseguenza della lesione dei diritti alla riservatezza e alla dignità. La responsabilità può estendersi anche ai danni derivanti da una gestione negligente degli impianti affidati a terzi (art. 2049 c.c.).

Infine, occorre ricordare che le immagini raccolte in violazione di legge non possono essere utilizzate né come prova in sede disciplinare, né in eventuali procedimenti giudiziari, risultando inutilizzabili (Cass. civ., sez. lav., n. 8372/2016).

Diritti dei dipendenti davanti alla videosorveglianza: come riconoscere una videosorveglianza illegittima

Ogni lavoratore ha il diritto di vedere tutelata la propria privacy sul luogo di lavoro anche in presenza di sistemi di videosorveglianza. La legge riconosce una serie di garanzie, che non possono mai essere eluse dal datore di lavoro. Un impianto di videosorveglianza è da considerarsi illegittimo se vengono meno alcuni presidi previsti dalla normativa: tra gli indicatori più evidenti rientra l’assenza di cartelli informativi chiari e visibili prima dell’accesso alle aree riprese, così come l’installazione di telecamere direttamente puntate sulle postazioni di lavoro, o ancora la mancanza di un’informativa completa sul trattamento dei dati personali. Un ulteriore segnale di illegittimità è dato dall’assenza di un accordo sindacale o dell’autorizzazione formale dell’INL in tutte le situazioni in cui la legge lo richiede.

Come agire in caso di violazione: ricorsi, segnalazioni e tutela concreta

Il dipendente che ritenga di essere sottoposto a una videosorveglianza illegittima dispone di diversi strumenti di tutela effettiva. In primo luogo, può presentare una segnalazione o un ricorso al Garante per la protezione dei dati personali, compilando il modello sul sito ufficiale dell’Autorità. La procedura è semplice: occorre indicare le proprie generalità, descrivere la situazione e allegare eventuali prove (ad esempio fotografie delle telecamere o della cartellonistica mancante). In alternativa o in aggiunta, è possibile rivolgersi all’INL, tramite segnalazione scritta, per denunciare la mancata osservanza delle regole sugli impianti audiovisivi in azienda.

Videosorveglianza e smart working. Le regole fuori dall’ufficio

L’estensione dello smart working ha imposto una riflessione sul tema della videosorveglianza anche fuori dall’ufficio. Nel lavoro da remoto, il controllo digitale degli strumenti forniti dall’azienda è ammesso solo entro i limiti previsti dall’art. 4 Stat. lav., che si applica anche al di fuori della sede aziendale. Le linee guida del Garante Privacy e dell’INL sottolineano che:

“Qualunque forma di monitoraggio, anche digitale, deve essere proporzionata, trasparente e non può mai tradursi in un controllo costante e invasivo dell’attività del lavoratore.”

È esclusa ogni possibilità di videosorveglianza occulta o di attivazione di webcam a distanza per monitorare la presenza o la produttività del dipendente durante il lavoro agile. Un sistema di controllo che consenta al datore di lavoro di verificare in tempo reale i movimenti del mouse, l’attivazione della webcam o la permanenza online, se non adeguatamente regolamentato e comunicato, integra una violazione delle regole in materia di controllo a distanza e privacy dei lavoratori. Anche nello smart working resta fermo l’obbligo informativo: il lavoratore deve essere messo a conoscenza in modo chiaro, prima dell’attivazione di qualsiasi sistema di controllo.

Quando la videosorveglianza supera i limiti: casistica

La videosorveglianza nei luoghi di lavoro può facilmente oltrepassare i confini della legittimità. Può accadere se vengono installate telecamere nascoste che riprendono in modo costante le postazioni dei dipendenti, senza che questi siano stati preventivamente informati. In simili circostanze, la Cassazione ha affermato la responsabilità penale del datore di lavoro per trattamento illecito di dati personali (Cass. pen., sent. n. 3255/2023). Anche l’uso delle immagini raccolte per finalità disciplinari, senza il rispetto delle procedure di legge e in assenza di informativa, determina l’inutilizzabilità delle stesse e comporta l’illegittimità dell’intero sistema di videosorveglianza, come riconosciuto dalla Suprema Corte (Cass. civ.,sent. n. 8372/2016).

Ulteriori profili di illegittimità emergono nei casi in cui vengano sorvegliate aree sensibili, quali spogliatoi o servizi igienici, nonostante il divieto assoluto posto a tutela della dignità e riservatezza dei lavoratori, oppure quando le immagini vengano conservate per periodi eccedenti i limiti ordinari previsti dalla normativa, senza un’adeguata giustificazione e senza aver informato gli interessati. Il Garante Privacy, in diversi provvedimenti (provv. n. 467/2018), ha sottolineato come queste condotte costituiscano gravi violazioni, ordinando la rimozione delle telecamere e la cancellazione delle immagini raccolte.

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