La verità di un’operaia bengalese che cuciva per Primark: «Il mio stipendio era di 35 euro»

Ilena D’Errico

30 Novembre 2025 - 20:26

Immaginate di lavorare per un’azienda internazionale come Primark e guadagnare appena 35 euro al mese? Può succedere se vivi in Bangladesh, dove comunque non avresti abbastanza per vivere.

La verità di un’operaia bengalese che cuciva per Primark: «Il mio stipendio era di 35 euro»

Spesso si parla delle dinamiche fumose dietro la moda low cost, ma raramente si ascoltano le storie singole e individuali delle persone in carne ed ossa che ne sono protagoniste. Praticamente ogni catena di abbigliamento che sfrutta l’economia di scala soffre di problemi analoghi e Primark, nonostante gli impegni ambientali e sociali, non fa eccezione. La delocalizzazione della produzione porta inevitabilmente a conseguenze dannose per i lavoratori, anche quando il datore non si appoggia su lavoro nero, sfruttamento e trascuratezza dei diritti dei lavoratori.

Ciò conta per le eventuali responsabilità legali, come pure per interrogare la propria morale sulla possibile complicità a normative nazionali deludenti, però non cambia gli effetti sulla vita delle persone. Lo racconta a Equipo de Investigación un’operaia bengalese che cuciva per Primark ricevendo uno stipendio mensile di appena 35 euro, insufficienti per vivere anche tenendo conto del costo della vita in Bangladesh. Come la sua, moltissime altre storie ci restituiscono immagini dolorose, dicendoci che ancora oggi in molti Paesi del mondo sopravvivere del proprio lavoro (e nonostante il proprio lavoro) è ancora un lusso.

L’operaia bengalese che cuciva per Primark a 35 euro al mese

Rasheda Mushamud è stata intervistata dai giornalisti di Equipo de Investigación, un programma televisivo spagnolo di attualità e approfondimento, nel 2016, durante un’inchiesta riguardante proprio la filiera di produzione di Primark. La donna aveva uno stipendio mensile fisso di 35 euro, ma riusciva quasi sempre ad arrivare a 57 euro al mese con straordinari e bonus. Condizioni che ovviamente non le garantivano il sostentamento, figuriamoci gratificarla, ma che l’operaia doveva accettare pur di mandare avanti la famiglia.

Poco è meglio di niente e l’industria tessile era l’unica alternativa disponibile dove viveva, e presumibilmente vive ancora, Rasheda. Da anni assunta per conto di Primark, Rasheda vive insieme al marito in una modesta casa condivisa con una ventina di persone, dove hanno un letto e un piccolo armadio. Una delle moltissime vicende analoghe che troviamo nel Paese, uno dei più poveri del mondo, dove fin troppe persone devono vivere con una trentina di euro al mese. Il settore tessile è fondamentale per l’economia bangladese, motivo per cui gran parte dei lavoratori sottopagati è impiegato proprio per i grandi colossi del low cost (e spesso anche della moda più lussuosa).

Primark e il lavoro sottopagato in Bangladesh

Primark, come molte altre aziende di abbigliamento, ha una forte componente della produzione all’estero. Paesi come India, Cina e Bangladesh ospitano moltissime sedi produttive di Primark, che, come tutte le altre aziende che usano questo metodo, beneficia proprio dei costi ridotti rispetto a molti altri Paesi esteri. Una dinamica che potrebbe anche funzionare senza creare scompensi, trovando convenienza nei diversi costi della vita e creando posti di lavoro, senza però accrescere le disparità. Il problema è che in Paesi con grande povertà come il Bangladesh aprire sedi produttive (142 nel Paese secondo i dati ufficiali dello stesso Primark) e rispettare le leggi locali non basta per dare dignità ai lavoratori.

Il problema risiede proprio nelle leggi nazionali e nella ristrettezza delle risorse, che non sono affatto problemi irrisolvibili da mandare giù, ma criticità che richiedono un impegno maggiore. Basti pensare che proprio nel settore tessile è recentemente aumentato il salario minimo, che passa da 8.000 taka a 12.500 taka (quasi 89 euro) a partire dal 1° dicembre 2025 grazie alle proteste dei lavoratori. Per capire meglio dobbiamo rapportare questi dati al costo della vita in Bangladesh, che è in media inferiore a 40.000 taka l’anno per ogni persona senza contare l’alloggio.

Idealmente, il salario minimo dovrebbe così garantire agli operai tessili il sostentamento, ma sarebbe anche ora visto che il Bangladesh rifornisce da anni il settore dell’abbigliamento (è il secondo esportatore mondiale dopo la Cina), con più di 4 milioni di lavoratori che forniscono marchi come H&M, Zara, Gap, Hugo Boss e Lululemon.

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