La sentenza sullo stop all’azzeramento dei bond AT1 riapre il caso della maxi-fusione.
Politica, giustizia, finanza: in Svizzera è «stallo alla messicana» sulle conseguenze del deal che nel 2023 portò in dote Credit Suisse a Ubs per 3 miliardi di franchi svizzeri (3,4 miliardi di dollari dopo un’operazione di fusione orchestrata dal governo di Berna e dopo che un tribunale elvetico ha dichiarato illegale la cancellazione unilaterale di 17 miliardi di obbligazioni dell’ormai estinta banca di Ginevra nel quadro dell’affare che portò alla sua incamerazione nella storica rivale.
In sostanza, la sentenza ha ritenuto illegittimo il fatto che il governo svizzero abbia aperto la strada a modificare ogni regola della governance azionaria in nome della tenuta del sistema finanziario nazionale. Contrariamente a quanto succede normalmente in una crisi d’impresa, dove sono i possessori di quote di un gruppo ad accollarsi la parte più significativa del rischio sul capitale, il caso Ubs-Credit Suisse fu teatro di un’operazione di ingegneria finanziaria senza precedenti.
Fu decretato di svalutare una categoria ben precisa di obbligazioni, le cosiddette Alternative Tier 1 (AT1), securities emesse senza data di scadenza dopo la Grande Recessione per aumentare l’interconnessione nel sistema bancario internazionale tramite l’acquisto reciproco di questi bond, molto più del capitale azionario. E così, mentre chi possedeva i 17 miliardi di dollari di obbligazioni AT1 emesse da Credit Suisse si trovò col capitale azzerato, i possessori di quote del gruppo videro perdite fino al 70% della loro partecipazione ma non furono lasciati con un pugno di mosche in mano. Berna sostenne Ubs con l’equivalente di 9 miliardi di dollari per coprire le perdite emergenti di Credit Suisse e iniettò ben 104 miliardi di liquidità nel mercato per prevenire un crollo delle borse. [...]
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