Addio all’assegno di mantenimento? Attenzione a quanto stabilito di recente dalla Corte di Cassazione.
La giurisprudenza è in continua evoluzione, tanto che alcune situazioni possono cambiare rapidamente. Ne è un esempio quanto sta succedendo all’assegno divorzile, da non confondere con quello di mantenimento, il quale spetta invece in caso di separazione e ha una funzione completamente diversa.
Più che di un vero e proprio “addio al mantenimento”, è più corretto parlare di cessazione dell’assegno divorzile. Nella pratica, però, spesso non si distingue tra assegno di mantenimento e assegno divorzile, e per comodità ci si riferisce a entrambi semplicemente come “mantenimento”.
Ma sono proprio le differenze tra queste due misure a essere oggetto di una recente sentenza della Cassazione, con la quale di fatto vengono resi più restrittivi i requisiti da soddisfare per avere diritto all’assegno di divorzio da parte dell’ex coniuge. Una sentenza destinata a diventare un punto di riferimento, alla quale potrebbero fare appello molte altre cause di questo genere, con l’obiettivo di revocare il diritto all’assegno una volta concluso il divorzio.
Qual è la differenza tra assegno di mantenimento e assegno divorzile?
Prima di scendere nel dettaglio in merito alla decisione della Corte di Cassazione, è bene chiarire qual è la differenza tra assegno di mantenimento e assegno divorzile, visto che è su quest’ultima misura che si è concentrata la valutazione dei giudici.
Nel dettaglio, l’assegno di mantenimento (da non confondere con quello riconosciuto ai figli) spetta all’ex coniuge - più precisamente alla parte economicamente più debole - con l’obiettivo di garantirle il tenore di vita di cui godeva durante il matrimonio. Inizialmente, la stessa funzione sociale era prevista anche per l’assegno divorzile, riconosciuto a seguito di divorzio. Tuttavia, da qualche anno le cose sono cambiate: a seguito della storica sentenza della Cassazione n. 18287/2018, infatti, è venuto meno il criterio del mantenimento del tenore di vita matrimoniale. L’assegno di divorzio ha mantenuto esclusivamente una funzione assistenziale - utile cioè a sostenere chi non ha mezzi propri sufficienti per autosostenersi - e compensativa, in quanto riconosce il contributo dato dall’ex coniuge alla gestione familiare e alla formazione del patrimonio comune o dell’altro coniuge.
L’addio alla funzione riequilibratrice del tenore di vita ha fatto sì che molte pratiche di divorzio si siano concluse senza che la parte economicamente più debole abbia ottenuto nulla dall’altro coniuge, o comunque un importo molto inferiore rispetto a quanto necessario per mantenere il tenore di vita avuto durante il matrimonio.
Proprio su questo principio si basa la più recente ordinanza n. 10035 del 16 aprile 2025, che aggiunge un tassello interpretativo destinato a fare da riferimento per molti ex coniugi che non vogliono più pagare l’assegno divorzile e potrebbero quindi chiedere una revisione delle condizioni.
Chi rischia di perdere l’assegno divorzile
A partire dalla storica sentenza del 2018, la giurisprudenza ha iniziato a guardare all’assegno divorzile in maniera differente. Dal momento che il divorzio segna la fine di un progetto di vita comune e l’inizio - o la ripresa, a seconda dei casi - di due percorsi individuali distinti, ciascun ex coniuge deve attivarsi per raggiungere l’autosufficienza economica. In altre parole, bisogna farcela con le proprie forze, mettendo in campo le proprie capacità, senza più potersi appoggiare alla parte economicamente più forte della coppia.
Come visto sopra, dunque, è vero che l’assegno di divorzio spetta in caso di non autosufficienza, ma questo non basta. Occorre anche dimostrare che tale condizione dipende da fattori oggettivi e non dal proprio scarso impegno nel cercare un lavoro.
Ecco perché, nel valutare se l’assegno spetti o meno, il giudice tiene conto non solo dell’eventuale presenza di mezzi economici propri, ma anche delle cause della loro eventuale mancanza. È necessario quindi dimostrare un’impossibilità oggettiva, come possono esserlo problemi di salute, un’età avanzata che impedisce l’inserimento lavorativo, oppure un carico di cura eccessivo nei confronti dei figli (pensiamo, ad esempio, a un genitore con tre minori a carico, che avrebbe ovvie difficoltà a trovare un lavoro a tempo pieno).
Come stabilito dalla Cassazione con l’ordinanza n. 10035 del 2025, se il coniuge richiedente ha un’età tale da permettergli un reinserimento nel mondo del lavoro e possiede i requisiti per essere considerato un profilo occupabile (titoli di studio adeguati, esperienze lavorative pregresse), allora dovrà dimostrare perlomeno di aver compiuto tentativi seri e continuativi per trovare un’occupazione stabile. Per intenderci: se l’ex coniuge dimostra di essersi attivato, negli anni trascorsi, nella ricerca di un lavoro, ma i suoi tentativi sono stati vani, allora l’assegno di divorzio continua a spettargli.
Diversamente no: lo scarso impegno, unito all’assenza di vincoli oggettivi che impediscono di lavorare, porta alla mancata assegnazione dell’assegno di divorzio o anche alla sua revoca, nel caso fosse già stato riconosciuto.
Per richiamare le famose dichiarazioni dell’ex ministro del Lavoro Luigi Di Maio a proposito del Reddito di cittadinanza, “non ci si può far mantenere restando sul divano”. Bisogna attivarsi, impegnarsi: altrimenti nulla vieta al giudice di tornare sulla propria decisione e togliere il sostegno.
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