I ritardi del PNRR sottendono la vera essenza del recovery fund: una clava politica per far approvare le riforme desiderate da Bruxelles.
I nodi del PNRR stanno venendo al pettine. La narrazione della nostra stampa, che per mesi ha incessantemente lodato il recovery fund come una ‘pioggia di miliardi’ sostanzialmente regalati all’Italia in difficoltà per la crisi pandemica dall’Unione Europea, si sta sciogliendo come neve al sole.
Perché il PNRR è un fallimento
Per chi non avesse già approfondito i regolamenti e le normative che riguardano il cosiddetto recovery fund e il PNRR, le prime avvisaglie che questo strumento fosse più che altro un vincolo al programma politico che un dispositivo di reale sostegno economico si erano viste alla vigilia della legge di bilancio.
Quando il Governo tentò di inserire un articolo che limitava le multe per i commercianti che non accettavano i pagamenti con carte di credito e POS solo per cifre superiori ai 60 euro, la reazione della Commissione fu immediata: quella norma cozzava con le riforme già approvate (dal Governo Draghi) previste dal PNRR. In particolare con l’art. 24 comma 3 del regolamento istitutivo del dispositivo di ripresa e resilienza, il recovery fund per l’appunto, che recita:
“Il conseguimento soddisfacente dei traguardi e degli obiettivi presuppone che le misure relative ai traguardi e agli obiettivi conseguiti in misura soddisfacente in precedenza non siano state annullate dallo Stato membro interessato”.
Il governo allora tentò una mediazione, proponendo di abbassare ulteriormente la soglia dei 60 euro, ma nulla da fare, quella norma doveva esser cancellata o metteva a rischio la tranche di finanziamento prevista dal PNRR.
I nodi da sciogliere sul PNRR
Ora il copione è quasi lo stesso: un comunicato di palazzo Chigi ci fa sapere che la Commissione si è presa del tempo, in particolare un altro mese, per valutare il raggiungimento entro il 31 dicembre 2022 delle 55 Milestones e Target, sempre a norma dell’art. 24 che recita come ‘in presenza di circostanze eccezionali, l’adozione della decisione che autorizza l’erogazione del contributo finanziario e, ove applicabile, del prestito a norma dell’articolo 24, paragrafo 5, può essere rinviata fino a tre mesi’.
Sotto la lente di ingrandimento ci sarebbero le concessioni portuali, che ovviamente la Commissione chiede di limitare nel tempo, le reti di teleriscaldamento per cui viene messa in dubbio la coerenza di alcuni interventi selezionati attraverso il bando pubblico. Ed infine viene contestato il «Bosco dello Sport» di Venezia e lo «Stadio Artemio Franchi» di Firenze, in quanto interventi non ammissibili con i fondi dei Piani Urbani Integrati, approvati lo scorso aprile.
Fonti di maggioranza hanno lasciato trasparire un certo fastidio verso la scrupolosità della Commissione, segnalando come gli investimenti sotto scrutinio fossero stati approvati dal Governo Draghi e lasciando intendere che se lo stesso fosse ancora in carica il trattamento sarebbe stato diverso.
A queste veline ha prontamente risposto il professor Giavazzi, già consulente economico di Palazzo Chigi, sulle colonne del Corriere della Sera. Il vero problema non sarebbero gli investimenti quanto più le riforme, in questo caso quella sulle concessioni balneari che dovrebbero essere limitate nella durata massima, così come stabilito dal Consiglio di Stato.
Recovery fund, una clava per imporre scelte politiche
Insomma, il recovery fund è diventato quello che in pochi avevano colto al suo principio: una clava per imporre le scelte politiche ed i desiderata della Commissione Europea agli Stati Membri. Chi sgarra non riceve i finanziamenti. Ed il coltello dalla parte del manico è tutto in mano alle istituzioni europee, con la Commissione che avrà ancora un mese (estendibile per un altro) per vagliare attentamente tutti i punti dirimenti – e fare le necessarie pressioni politiche – e dare il proprio assenso o meno.
Ma poi non è finita, perché bisognerà ricevere il parere positivo anche del Comitato Economico e Finanziario, un’istituzione dove siedono i rappresentati delle burocrazie finanziarie di tutti gli stati membri. Ed in quel consesso se anche solo uno stato membro dovesse eccepire “gravi scostamenti dal conseguimento soddisfacente dei pertinenti traguardi e obiettivi” dal PNRR questi potrebbe richiedere al Presidente del Consiglio Europeo di rinviare la questione al successivo Consiglio Europeo, che ne dovrebbe discutere “in maniera esaustiva” e “di norma entro tre mesi”. Formula più vaga non potevano inventarsi. Fino ad allora i fondi rimarrebbero bloccati; è il cosiddetto ‘freno d’emergenza’ voluto dal Governo olandese nelle trattative istitutive del recovery fund.
Una vera corsa ad ostacoli che tra le altre cose rende chiaro un altro punto: non è per nulla certo che l’Italia sia percettore netto dei fondi del recovery fund come propagandato da mesi e mesi. Se qualche rata semestrale dovesse saltare - e con l’avanzare dei progetti e soprattutto dei target da raggiungere in tempo ciò diventa sempre più probabile - l’Italia sarebbe comunque impegnata a ripagare la sua quota del debito europeo emesso tramite il bilancio comune, ma non vedrebbe erogata l’interezza dei famigerati 210 miliardi.
L’unica cosa forse positiva di questa storia è che qualcuno prenderà finalmente coscienza che la UE non è mai diventata quella comunità politica che assiste gli stati in difficoltà come si è tentato di far passare con l’istituzione del recovery fund, ma è sempre rimasta un’arena dove gli stati membri competono per far valere i propri interessi. Forse lo capiremo anche nel nostro Paese.
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