Quando spetta la Naspi dopo le dimissioni? Solamente in quattro casi: giusta causa, maternità, risoluzione consensuale e riassunzione. Facciamo chiarezza.
Rassegnare le dimissioni solitamente preclude la possibilità di richiedere l’indennità di disoccupazione conosciuta come Naspi.
Questo perché uno dei requisiti essenziali per godere della disoccupazione è la perdita involontaria del rapporto di lavoro. A tal proposito, possiamo definire “involontario” quell’evento “estraneo a qualsiasi determinata intenzione”: per questo motivo solitamente la Naspi non spetta dopo le dimissioni, ossia quell’atto con cui il dipendente decide di recedere unilateralmente dal contratto facendo così venire meno qualsiasi vincolo nei confronti del datore di lavoro.
L’intenzione del legislatore era chiara: evitare che la possibilità di godere della Naspi dopo il lavoro potesse essere attrattiva nei confronti dei dipendenti, incentivandoli a dimettersi dal lavoro una volta maturata un’indennità di disoccupazione di una certa durata (la metà delle settimane contributive che si possono far valere negli ultimi 4 anni). Per questo motivo è stato precluso l’accesso alla Naspi al dipendente che si dimette, così come ad esempio sono state imposte delle limitazioni per il Reddito di cittadinanza.
Tuttavia, in alcuni casi le dimissioni possono essere “imposte” da fattori estranei alla propria volontà: è il caso, ad esempio, del datore di lavoro che si rende colpevole di una violazione contrattuale grave, come può essere il mancato - e ripetuto - pagamento degli stipendi. Laddove un tale comportamento dovesse essere alla base delle dimissioni rassegnate dal dipendente, ossia qualora persista la giusta causa, allora il diritto alla Naspi non si perde.
Ma la giusta causa non è l’unica situazione che autorizza la richiesta di Naspi dopo le dimissioni: ce ne sono altre tre, di cui ne approfondiremo i dettagli nel proseguo di questa guida.
Naspi e dimissioni per giusta causa
Oggi, a tutti gli effetti, le dimissioni presentate per giusta causa non fanno perdere il diritto alla Naspi. Eppure non è sempre stato così; per diverso tempo si è discusso riguardo alla volontarietà delle dimissioni per giusta causa.
È vero, infatti, che anche in questo caso è comunque il lavoratore dipendente a rassegnare le dimissioni, condizione che sembrerebbe escludere la possibilità del riconoscimento dell’indennità di disoccupazione, ma lo è altrettanto il fatto che senza il comportamento lesivo messo in atto dal datore di lavoro questo non avrebbe avuto alcun motivo per interrompere anticipatamente il rapporto lavorativo.
Per questi, quindi, la Naspi rappresenta più una tutela che un “incentivo”.
Un principio che l’Inps ha messo nero su bianco con la circolare 163 pubblicata il 20 ottobre 2003, dove si legge che “qualora le dimissioni non siano riconducibili alla libera scelta del lavoratore ma siano indotte da comportamenti altrui che implicano la condizione d’improseguibilità del rapporto di lavoro”, allora si ha comunque diritto all’indennità di disoccupazione.
Ma attenzione, non basta che sussista la giusta causa per far sì che anche le dimissioni presentate siano riconosciute come tali. È richiesta, infatti, un’apposita procedura senza la quale non sarà comunque possibile richiedere l’indennità di disoccupazione. Al momento dell’invio della domanda telematica su ClicLavoro, infatti, bisogna barrare l’apposita voce “dimissioni per giusta causa”.
Naspi e dimissioni volontarie per maternità
Sono a tutti gli effetti delle dimissioni volontarie, invece, quelle rassegnate durante il periodo di maternità. Come tale si intende quello che va dal 300° giorno precedente alla data presunta del parto al compimento del 1° anno di vita del bambino.
Pur essendo tali il legislatore ha comunque riconosciuto il diritto alla Naspi a queste lavoratrici. Una tutela per coloro che decidono di lasciare il lavoro per dedicarsi completamente alla cura del proprio figlio, riconoscendo comunque loro il diritto a percepire l’indennità di disoccupazione per i periodi lavorativi avuti negli ultimi quattro anni (purché non abbiano già dato luogo alla Naspi).
Anche in questo caso c’è una procedura particolare per presentare le dimissioni e non perdere il diritto alla disoccupazione. È necessario, infatti, presentare richiesta direttamente all’Ispettorato Nazionale del Lavoro (senza utilizzare la procedura telematica per le dimissioni online).
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Naspi e risoluzione consensuale
Spetta comunque l’indennità di disoccupazione quando c’è sia la volontà del dipendente a non continuare il rapporto di lavoro che quella del datore di lavoro.
Nel dettaglio, ci riferiamo a due situazioni che danno luogo alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro:
- la prima, è quella in cui la risoluzione avviene nell’ambito della procedura di conciliazione presso la direzione territoriale del lavoro come disposto dall’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e come sostituito dall’articolo 1, comma 40, legge 92/2012;
- la seconda è il caso in cui la risoluzione sia consensuale in quanto il lavoratore dipendente si rifiuta di trasferirsi presso un’altra sede dell’azienda, purché questa sita a più di 50 chilometri di distanza dalla residenza del lavoratore (o raggiungibile comunque con più di 80 minuti con i mezzi pubblici).
Naspi: dimissioni volontarie e riassunzione
C’è una quarta situazione in cui spetta comunque la disoccupazione per i periodi lavorativi interrotti con le dimissioni.
Prendiamo come esempio un lavoratore che si dimette e non rientra nelle casistiche suddette. Questo non potrà richiedere la disoccupazione. Ma attenzione: non è detto che questi periodi vadano persi.
In caso di riassunzione e di successiva perdita involontaria del lavoro, infatti, si va comunque indietro di 4 anni. Qualora in questo periodo siano compresi i periodi lavorati precedentemente che non hanno dato luogo alla Naspi questi verranno comunque presi in considerazione, sia ai fini della maturazione del diritto che per il calcolo dell’indennità stessa.
Ricordiamo, infatti, che la Naspi spetta quando negli ultimi 4 anni ci siano almeno 13 settimane contributive. Ebbene, per la maturazione di questi requisiti si tiene anche conto di eventuali periodi lavorativi cessati in seguito a dimissioni volontarie, ma solo nel caso in cui ci sia successivamente una riassunzione e una conseguente perdita del lavoro per non volontarietà del dipendente. Lo stesso vale per il calcolo del beneficio, per il quale si tiene conto di tutti i periodi lavorati negli ultimi 4 anni che non hanno già dato luogo all’indennità di disoccupazione.
Le dimissioni durante il periodo di prova danno diritto alla Naspi?
Caso particolare è rappresentato dalle dimissioni durante il periodo di prova. In tale periodo, infatti, il dipendente è legittimato a interrompere il rapporto di lavoro senza rispettare il periodo di preavviso. Inoltre, le dimissioni durante il periodo di prova non devono essere segnalate ai fini del reddito di cittadinanza.
Due tutele che potrebbero far pensare, vista la particolarità delle dimissioni durante il periodo di prova, che queste facciano mantenere anche il diritto alla Naspi. Ebbene, non è così: ai fini dell’indennità di disoccupazione, dunque, lasciare il lavoro nel periodo di prova viene considerato al pari di qualsiasi altra dimissione volontaria, e dunque non c’è possibilità di fare domanda di Naspi.
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