Perché in psicologia esistono così tante scuole di pensiero? Secondo un recente studio, i tratti cognitivi degli scienziati influiscono su queste divisioni.
In un mondo ideale la scienza dovrebbe funzionare così: si raccolgono dati, si analizzano e, se tutto è andato per il verso giusto, si arriva a una conclusione condivisa da tutti.
Eppure, chi nella vita ha frequentato almeno una facoltà di psicologia sa che le cose non sono così semplici. Esistono, infatti, varie scuole di pensiero contrapposte, con teorie che si escludono a vicenda e dibattiti che durano decenni all’interno della comunità scientifica.
Ci sono i cognitivisti, gli psicologi sociali costruzionisti, gli evoluzionisti, i dinamici... E ancora, le neuroscienze cognitive, la psicologia comportamentale (erede attuale del comportamentismo di John Watson) e quella fenomenologica ed esistenziale. Tra i tanti rami della scienza, sembra che la psicologia sia quella caratterizzata dal numero più alto di divisioni interne e la domanda sorge quindi spontanea. Come mai?
Un recente studio, pubblicato su Nature Human Behaviour propone una risposta affascinante: non è solo una questione di teoria e metodo utilizzati, ma anche di psicologia dei ricercatori stessi.
D’altronde, a un quesito sul perché del comportamento degli psicologi non poteva che rispondere la psicologia stessa, c’era da aspettarselo. Chi altro, sennò, avrebbe potuto spiegarlo meglio?
La scienza è davvero oggettiva?
Lo studio in questione ha coinvolto ben 7.973 psicologi e studiosi di discipline affini, chiedendo loro - all’interno della fase iniziale - di esprimere il proprio parere su alcuni dei principali e più discussi temi caldi della psicologia. Alcuni esempi?
- L’essere umano è mosso dal puro interesse razionale?
- La mente può essere spiegata con modelli matematici?
- I costrutti psicologici come la memoria o la personalità esistono davvero?
- Il contesto sociale è davvero fondamentale per capire il comportamento?
Ma non è finita qui: i ricercatori hanno anche misurato tratti cognitivi e disposizionali dei partecipanti, come la tolleranza per l’ambiguità, la preferenza per l’ordine o la creatività.
Le opinioni scientifiche sono (anche) questione di carattere
I risultati dello studio sono stati davvero sorprendenti. Infatti, è emerso che le opinioni sui grandi temi della psicologia erano fortemente influenzate dal modo in cui i ricercatori ragionano e vedono il mondo.
In particolare, è emerso che chi ha una mente più flessibile e tollerante all’ambiguità tendeva, ad esempio, a:
- rifiutare l’idea dell’essere umano come “macchina razionale”;
- considerare il contesto sociale come più importante;
- vedere le teorie psicologiche come strumenti, non verità assolute.
Al contrario, chi ha un pensiero più analitico e strutturato preferiva:
- modelli matematici e spiegazioni riduzioniste;
- l’idea di regole universali della mente;
- l’uso di analogie tra il cervello e il computer.
Studiare gli stessi dati non basta
Una delle scoperte più interessanti di questa ricerca è che queste differenze sono presenti anche a parità di ambito di studio o di metodo utilizzato.
Infatti, anche più ricercatori che lavorano sullo stesso tema e approfondiscono un argomento con la stessa metodologia, possono arrivare a formulare delle conclusioni completamente diverse. Questo avviene per una ragione molto semplice: i dati sono gli stessi, ma vengono interpretati attraverso delle “lenti cognitive” differenti, che dipendono dai loro tratti cognitivi.
È proprio per questo motivo che, secondo gli autori, certe divisioni nella scienza non si colmano semplicemente accumulando e confrontando nuove evidenze. I pensieri riguardo queste ultime, infatti, hanno delle “radici” più profonde.
Le differenze nei tratti cognitivi e le conseguenze sulle pubblicazioni
Lo studio ha analizzato anche le pubblicazioni scientifiche dei partecipanti. In particolare, sono stati confrontati vari elementi di queste ultime, tra cui titoli, abstract (ovvero i brevi riassunti che descrivono lo scopo dello studio), autori stessi e fonti citate.
Anche qui, i risultati sono stati molto interessanti e sono un’ulteriore conferma di quanto detto fino ad ora: chi ha tratti cognitivi simili, tende a scrivere articoli simili, a citare gli stessi autori e a collaborare tra di loro con maggior frequenza.
In pratica, è come se queste analogie cognitive tra scienziati abbiano permesso la formazione di gruppi accademici che condividono idee e stili di pensiero simili. È proprio questo che rende il confronto tra scuole di pensiero ancora più difficile, perché non si parla solo di contenuti diversi, ma di veri e propri approcci mentali differenti.
Quindi, lo studio suggerisce che la psicologia - e forse tutta la scienza - è meno “neutrale” di quanto siamo soliti pensare e che le differenze tra ordinamenti di pensiero non derivano solo dai dati e dai metodi utilizzati, ma anche dal modo di ragionare dei ricercatori.
Attenzione, però a non fraintendere. Riconoscere questi fattori non significa mettere in discussione la scienza o la validità dei metodi di qualcuno, piuttosto che di qualcun altro. Al contrario, significa comprendere meglio i meccanismi che guidano la formazione delle teorie e del perché, effettivamente, esistono così tante idee diverse all’interno di un disciplina.
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