Lavoratori in sciopero e clima teso: la crisi della Volkswagen si complica con la minaccia di chiusura di tre stabilimenti e di riduzione degli stipendi. Cosa sta succedendo?
Non si placa l’agitazione dei lavoratori tedeschi della Volkswagen, tornati a scioperare e a protestare in massa lunedì 2 dicembre.
Con il blocco della produzione di due ore da parte degli operai nei turni del mattino e scioperi anticipati nei turni serali, un totale di circa 100.000 dipendenti di nove stabilimenti in tutta la Germania hanno preso parte alla protesta.
La sigla sindacale IG Metall, per voce del caponegoziatore Thorsten Groeger, ha fatto sapere che “questo è stato il primo, potente impatto di un inverno di proteste, la Volkswagen dovrebbe tornare in sé e accantonare definitivamente i suoi piani da incubo...”. All’orizzonte si intravedono ancora nubi.
Il colosso automobilistico ha in programma di chiudere almeno tre fabbriche in Germania, licenziare decine di migliaia di dipendenti e ridurre le dimensioni degli stabilimenti rimanenti nella più grande economia europea, nell’ambito di una revisione della produzione più profonda del previsto, ha affermato il presidente del comitato aziendale della casa automobilistica.
Le proposte per risollevare l’omonimo marchio VW in difficoltà includono un taglio del 10% degli stipendi e la diminuzione degli occupati in tutti gli stabilimenti che ancora operano in Germania.
I problemi e le sfide irrisolte del gigante che da 87 anni rappresenta la forza industriale di Berlino sono un campanello di allarme per tutto il comparto auto europeo. E, quindi, per la ripresa industriale e il futuro economico dell’Europa.
Il vecchio continente sta prendendo tempo nella corsa alle auto elettriche, mentre le case automobilistiche della regione faticano ad adattarsi alla transizione e fanno emergere tutti i nodi di un sistema industriale arretrato e frenato dalla burocrazia.
Non a caso, Volkswagen, ma anche Volvo Car, hanno ridimensionato le grandi ambizioni per sfidare Tesla e i nuovi rivali cinesi. Le ragioni di tali arretramenti sono duplici: non ci sono abbastanza modelli accessibili per attirare compratori non ricchi e i governi hanno ridimensionato gli incentivi. Intanto, con le dimissioni del CEO Stellantis Tavares, anche il quarto gruppo automobilistico mondiale è stato appena scosso da un vero e proprio terremoto.
A luglio, le consegne di auto a batteria sono diminuite di oltre il 10% in tutta la regione europea, principalmente a causa di un crollo del 37% in Germania, il mercato più grande della regione. Il tonfo ha colto di sorpresa i produttori e ha portato a una discrepanza tra i piani di investimento e le realtà del mercato.
I cambiamenti strategici rischiano di far arretrare l’Europa nella battaglia globale per il futuro dell’industria automobilistica. Il caso Volkswagen è emblematico. Lo stallo sulla potenziale chiusura di stabilimenti tedeschi è solo l’inizio di una disputa che potrebbe durare mesi, con conseguenze che si ripercuoteranno sulla regione.
Cosa sta per accadere al colosso auto tedesco?
Il CEO della Volkswagen Olivier Blume è in aperto contrasto con il sindacato IG Metall, con la dirigenza che spinge per tagli importanti mentre i lavoratori minacciano altri scioperi se non si raggiunge un accordo equo.
Il quarto round di negoziati previsto per il 9 dicembre segnerà un’altra tappa cruciale: o ci sarà un accordo tra le due parti oppure sarà escalation.
Daniela Cavallo, presidente del comitato aziendale della Volkswagen, ha evidenziato che i segnali inviati di recente dalla dirigenza non sono molto incoraggianti. Il CEO BLume è stato fischiato dalla folla dei lavoratori nello stabilimento principale della VW a Wolfsburg, lunedì 2 dicembre, quando ha spiegato:
“Come management non stiamo operando in un mondo di fantasia. Stiamo prendendo decisioni in un ambiente in rapido cambiamento. La pressione sui prezzi è immensa...”
Cavallo, però, ha criticato Blume per non essere disposto a fare sacrifici nella gestione e tra gli azionisti. Ha detto che il sindacato punta a un accordo da finalizzare entro Natale. “Ciò significherà compromessi. Anche concessioni.”
Il riferimento è alla bocciatura delle misure proposte dal sindacato per risparmiare 1,5 miliardi di euro sui costi del lavoro senza dover chiudere fabbriche. I piani includevano la rinuncia a futuri aumenti salariali in cambio di orari di lavoro più brevi in alcuni stabilimenti e la rinuncia ai bonus per dirigenti e personale.
La Volkswagen ha risposto che, sebbene le misure possano aiutare nel breve termine, non porteranno ad alcun sollievo finanziario a lungo termine per l’azienda nei prossimi anni.
L’inverno si preannuncia caldo in Germania.
Volkswagen chiude le aziende in Germania: la crisi senza precedenti
L’anno sta per concludersi in modo molto amaro per i lavoratori tedeschi della Volkswagen, già sul piede di guerra da settimana per i forti venti di crisi che soffiano sull’automotive in Germania e in Europa.
Circa un mese fa Thomas Schäfer, CEO del marchio VW ha pronunciato parole chiare sulla situazione aziendale:
Attualmente non guadagniamo abbastanza soldi con le nostre auto. Allo stesso tempo, i nostri costi per energia, materiali e personale hanno continuato a crescere. Questo calcolo non può funzionare a lungo termine.
...non siamo abbastanza produttivi nei nostri siti tedeschi e i nostri costi di fabbrica sono attualmente più alti del 25-50% rispetto a quanto avevamo pianificato. Ciò significa che i singoli stabilimenti tedeschi sono due volte più costosi della concorrenza.
La casa automobilistica tedesca, che ha emesso il suo secondo profit warning in tre mesi a fine settembre, si trova in un periodo difficile. Mentre i suoi marchi premium, tra cui Audi e Porsche, sono stati la principale fonte di profitto negli ultimi anni, ora sono in difficoltà. Venerdì 25 ottobre Porsche AG ha affermato di stare valutando tagli ai costi e di rivedere la sua gamma di modelli dopo che un crollo della domanda in Cina ha colpito i suoi profitti.
I sindacalisti sostengono, però, che i lavoratori sono costretti a pagare per gli errori del consiglio di amministrazione, tra cui un passaggio ai veicoli elettrici gestito male e una cattiva politica dei prezzi.
I piani di riduzione dei lavoratori sono destinati a intensificare il conflitto con i sindacati e a dare un duro colpo alla più grande economia europea, alle prese con la stagnazione e con sfide che vanno dalla migrazione e dai maggiori costi energetici all’austerità di bilancio e alla guerra in Ucraina. Danno il via a una settimana controversa per la Volkswagen, che dovrebbe registrare vendite e profitti in calo quando mercoledì 30 ottobre pubblicherà i risultati del terzo trimestre.
I tagli previsti includono anche il congelamento dei salari l’anno prossimo e nel 2026, ha detto responsabile del consiglio dei dipendenti Daniela Cavallo, e l’abolizione dei pagamenti una tantum per i lavoratori rimasti nella casa automobilistica per 25 e 35 anni. Ha aggiunto che Porsche, guidata anch’essa da Blume, ha interrotto il suo rapporto di produzione e la pianificazione dei modelli futuri con la fabbrica di Osnabrück.
Il mese scorso, la Volkswagen ha dichiarato che i risultati semestrali dell’azienda indicavano che non avrebbe raggiunto il suo obiettivo di 10 miliardi di euro (10,8 miliardi di $) di risparmi sui costi entro il 2026.
La Volkswagen impiega circa 120.000 dipendenti in Germania, dove gestisce 10 stabilimenti, sei dei quali si trovano nello stato settentrionale della Bassa Sassonia, tra cui Wolfsburg.
Perché la crisi di Volkswagen spaventa l’Europa?
Il caos scoppiato in Germania sulla crisi industriale di Volkswagen non è una storia isolata. Il campanello di allarme sta suonando per tutto il vecchio continente.
“In Europa, stiamo perdendo vantaggi sui costi sempre più rapidamente”, ha affermato Ferdinand Dudenhöffer, direttore del CAR-Center Automotive Research di Bochum. “L’effetto sarà che la Cina continuerà a espandere i suoi vantaggi competitivi nei veicoli elettrici e le strutture dei costi in Europa continueranno a rimanere indietro”.
Il rallentamento della domanda di veicoli elettrici arriva mentre il mercato automobilistico della regione rimane quasi un quinto al di sotto dei livelli pre-pandemia, indebolendo anche la redditività dei veicoli convenzionali.
Volvo Cars ha abbandonato un piano per vendere solo auto completamente elettriche entro il 2030 dopo una deludente domanda di questi veicoli. La casa automobilistica, di proprietà della cinese Geely, ora punta a far sì che i modelli ibridi plug-in e solo a batteria rappresentino almeno il 90% delle sue vendite alla fine del decennio.
Volkswagen e Volvo sono tra le ultime a cambiare rotta. Anche Mercedes-Benz Group ha sollevato preoccupazioni sul ritmo degli sviluppi del mercato. Dopo aver inizialmente promesso di passare all’elettrico entro il 2030, il CEO Ola Källenius ha dichiarato a un’assemblea degli azionisti a maggio che l’azienda offrirà probabilmente modelli con motore a combustione interna per il prossimo decennio, sottolineando che la “trasformazione potrebbe richiedere più tempo del previsto”.
I produttori europei hanno faticato a proporre veicoli elettrici per il mercato di massa. Modelli di fascia alta come la Porsche Taycan da 107.000 euro e la BMW i7 da 116.000 euro si rivolgono a consumatori d’élite, ma le alternative economiche restano scarse. La versione elettrica della Fiat 500, tradizionalmente simbolo di mobilità accessibile, costa quasi 35.000 euro, il doppio del prezzo della sua controparte con motore a combustione.
Di contro, le case automobilistiche cinesi stanno capitalizzando la lenta transizione dell’Europa, lanciando veicoli elettrici a prezzi competitivi come la BYD Dolphin da 33.000 euro, rispetto al prezzo di partenza di 37.000 euro della VW ID.3. Il colosso automobilistico con sede a Wolfsburg, in Germania, si è impegnato a introdurre un’auto elettrica economica, ma i suoi elevati costi di produzione rappresentano un ostacolo.
La questione del prezzo è diventata ancora più importante negli ultimi mesi. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia nel 2022 ha contribuito a un’ondata di inflazione che ha colpito duramente i bilanci delle famiglie e ha messo i nuovi veicoli fuori dalla portata di molti. Gli aumenti dei tassi di interesse delle banche centrali hanno ulteriormente aumentato il costo del finanziamento dei veicoli, alzando l’asticella per i consumatori.
L’industria europea è vecchia
Il commissario europeo per il clima, Wopke Hoekstra, ha recentemente rivelato in una intervista che burocrazia labirintica e mancanza di un unico mercato dei capitali funzionale in Ue hanno ostacolato lo sviluppo di un’industria - anche automobilistica - nel tenere il passo con le sfide attuali.
“Il problema fondamentale è che siamo rimasti indietro, e lo abbiamo fatto perché il nostro sistema economico e industriale è bloccato nel passato”, ha sottolineato il commissario. Le aziende cinesi di auto elettriche, batterie e solare che ora dominano questi mercati sono relativamente nuove, e ce ne sono molte. I giganti della tecnologia degli Stati Uniti sono più consolidati, ma sono anche piuttosto recenti.
“Se si guardano le più grandi aziende europee, al contrario, si tratta davvero del vecchio continente. La maggior parte di esse risale a più di 50 anni fa. La tripletta di aziende, sindacati e governi che abbiamo costruito non consente facilmente l’ingresso di nuovi entranti”, ha dichiarato.
La crisi Volkswagen, quindi, richiama l’attenzione su questioni più complesse e urgenti. Tutto il sistema industriale europeo rischia di restare troppo indietro, con la minaccia di licenziamenti e cancellazioni di investimenti.
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