Anche dopo l’addio di Buffett, il culto dell’investimento attivo resiste: fede, mito e autoillusione plasmano una religione finanziaria che ignora l’evidenza dei numeri.
Nel mondo della finanza, alcune figure superano lo status di esperti e diventano simboli, archetipi, quasi divinità. Warren Buffett è uno di questi. Conosciuto come il “Saggio di Omaha”, il suo nome è ormai sinonimo di successo, saggezza e coerenza finanziaria. Ma c’è una profonda, persistente ironia nel modo in cui il mondo della finanza lo venera: Buffett è il messia dell’investimento attivo, e al contempo il suo più feroce detrattore.
Fin dagli anni ’70, Buffett ripete nei suoi scritti e nelle sue lettere annuali agli azionisti che battere il mercato sistematicamente è impossibile per la maggioranza degli investitori. “Chi cerca rendimenti superiori alla media è destinato alla delusione,” scriveva già nel 1975. Eppure, il suo stesso track record lo smentisce clamorosamente: un rendimento composto del 20% annuo per oltre mezzo secolo, il doppio rispetto all’S\&P 500.
Un risultato che non dovrebbe esistere. Eppure eccolo lì, visibile nella capitalizzazione colossale di Berkshire Hathaway, nel prezzo stellare delle sue azioni classe A, e nelle folle che ogni anno accorrono a Omaha per ascoltare il verbo di Buffett — un pellegrinaggio laico in un’epoca che ha sostituito la fede con i rendimenti. [...]
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