Il calo dell’active share coincide con il recupero dei rendimenti nei fondi growth: la metrica simbolo della gestione attiva è ancora un indicatore affidabile?
Negli ultimi anni, un concetto aveva promesso di cambiare le sorti della gestione attiva: l’active share, ovvero la percentuale di differenza tra il portafoglio di un fondo e il suo indice di riferimento. Introdotta nel 2006 da Martijn Cremers e Antti Petajisto, questa misura era stata accolta con entusiasmo dai gestori come dimostrazione del loro coraggio e originalità rispetto al mondo della gestione passiva.
La teoria sembrava solidissima: maggiore l’active share, maggiori le probabilità di battere il benchmark, anche al netto dei costi. Da lì la corsa delle società di gestione a mostrare muscoli e differenziazione, con campagne marketing focalizzate sull’essere “veramente attivi”, in contrapposizione ai “closet indexers”, quei fondi a gestione attiva che in realtà replicano gli indici senza dichiararlo.
Eppure, come mostra l’ultimo report di Goldman Sachs, qualcosa è cambiato. Tra i 541 fondi azionari statunitensi a grande capitalizzazione monitorati — per un totale di 3.500 miliardi di dollari in gestione — l’active share è in costante calo da dieci anni. Il fenomeno è particolarmente evidente nei fondi growth, mentre quelli orientati al value mostrano tendenze opposte. [...]
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