Femminicidio, qualcosa si muove: ecco cosa rischia chi commette questo reato e come si sta ovviando al vuoto di norme specifiche.
Troppo spesso sentiamo parlare di femminicidio, ma cos’è esattamente e chi ha introdotto questo termine nel dibattito pubblico e giuridico? Non si tratta di una semplice formula giornalistica, ma di un concetto tecnico, ormai radicato nel lessico istituzionale e sociale, che indica una specifica forma di violenza estrema contro le donne, spesso perpetrata all’interno di relazioni affettive, e culminante nella loro uccisione.
Negli ultimi anni, la crescente consapevolezza pubblica ha portato a riconoscere il femminicidio non solo come un fatto di cronaca ricorrente, ma come un fenomeno strutturale, profondamente legato a disuguaglianze culturali, sociali e di potere. In questo contesto, l’Italia ha recentemente compiuto un passo decisivo: nel luglio 2025, il Senato ha approvato all’unanimità un disegno di legge che riconosce formalmente il femminicidio come reato autonomo nel codice penale.
Nel nostro approfondimento, analizzeremo il significato e le origini del termine, l’evoluzione culturale e normativa del concetto, e le principali misure di tutela attualmente previste dall’ordinamento giuridico per le donne vittime di violenza.
Che cosa significa femminicidio e da dove deriva il termine
Al contrario di quanto molti pensano, il termine “femminicidio” non è una creazione dei giornalisti, anche se - purtroppo- lo si sente utilizzare spesso riguardo ai fatti di cronaca nera.
Il termine “femminicidio” ha iniziato a diffondersi a partire dal 2008, ed è stato utilizzato per la prima volta da Barbara Spinelli, consulente Onu sulla violenza di genere. A partire da quel momento, i giornalisti hanno iniziato ad utilizzarlo massivamente, anche perché più fruibile del corrispettivo giuridico “uxoricidio”, dal latino “uxor” che vuol dire “moglie”.
Il termine femminicidio è entrato a pieno titolo nella lingua italiana nel 2009, dopo il riconoscimento dell’Accademia della Crusca e del vocabolario della lingua italiana Devoto-Oli. L’enciclopedia Treccani definisce lo definisce come:
«Qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte».
Il termine rimane d’uso corrente e, oggi, la sua portata viene interpretata in modo ancora più ampio: include non solo l’omicidio ma anche le violenze strutturali, economiche, sociali e psicologiche contro le donne, riconosciute come parte del continuum di violenza di genere.
La differenza tra «femmicidio» e «femminicidio»
Il termine “femminicidio” non nasce come formula giornalistica, ma ha radici teoriche e sociologiche profonde. Per comprenderlo appieno, è utile partire da una distinzione spesso trascurata ma fondamentale: quella tra femmicidio e femminicidio.
Il termine femmicidio (dall’inglese femicide) compare per la prima volta nel 1801 in un testo satirico, per poi assumere un significato più strutturato con gli studi della criminologa Diana Russell nel 1992. In quell’ambito, femmicidio indicava l’uccisione di una donna in quanto tale, senza necessariamente definire un contesto relazionale o culturale.
Il concetto di femminicidio, invece, evolve per sottolineare la responsabilità sistemica e patriarcale che porta alla morte di una donna: non solo la mano dell’assassino, ma il contesto culturale, giuridico e sociale che lo ha reso possibile.
Il femminicidio denuncia l’assenza di prevenzione, l’insufficienza delle risposte istituzionali, la cultura del possesso e della sopraffazione.
In Italia, la resistenza a riconoscere il termine come legittimo è durata decenni. Eppure già a fine Ottocento se ne trovano tracce nei commenti di intellettuali come Augusto Franchetti. Oggi, la sua piena legittimazione non è solo linguistica, ma anche giuridica.
L’evoluzione del termine si lega anche alla storia del diritto: fino agli anni ’70 esisteva nel nostro ordinamento il cosiddetto delitto d’onore, che prevedeva uno sconto di pena per chi uccideva la moglie colta in adulterio. L’abolizione di questa norma nel 1981 (legge 442) fu una tappa fondamentale nel percorso di riconoscimento della violenza di genere come questione politica e non solo familiare o passionale.
Nonostante i progressi normativi, il dibattito resta acceso. Ancora oggi si cerca, talvolta, di normalizzare l’omicidio di una donna riducendolo a “raptus”, “gelosia”, “dramma familiare”, rinforzando narrazioni che tendono a colpevolizzare la vittima (victim blaming) invece di analizzare le responsabilità sociali e sistemiche.
Femminicidio e statistiche, qualche dato per capire
Insomma, da quando è stato introdotto, il termine femminicidio - nel linguaggio comune - è andato a sostituirsi a quello più generico di omicidio quando la vittima è di sesso femminile. Da un punto vista strettamente giuridico, il femminicidio è un omicidio doloso o preterintenzionale. Tuttavia oltre al significato giuridico vi anche quello culturale: il femminicidio in senso più ampio indica l’accanimento morboso, che può portare alla morte, degli uomini nei confronti delle donne.
I dati ufficiali più recenti confermano che il fenomeno resta drammaticamente rilevante: secondo l’Istat, nel 2023 sono state 117 le donne uccise (su 334 omicidi totali). Nei primi undici mesi del 2024, l’Osservatorio Non Una Di Meno ha registrato circa 98 femminicidi, 1 transcidio e 53 tentati femminicidi.
D’altro canto, il tasso complessivo degli omicidi è in lieve calo secondo il Ministero dell’Interno: 308-314 nel 2024 (0,52 ogni 100.000 abitanti), un livello tra i più bassi in Europa.
Femminicidio, cosa dice la legge: dal Codice Rosso al nuovo reato autonomo
Da luglio 2019, in Italia è in vigore il c.d. “Codice rosso”, una misura speciale che stabilisce una serie di norme contro il femminicidio e ogni altra violenza nei confronti delle donne. Il testo nasce dalla collaborazione della ex ministra della Pubblica Amministrazione Giulia Bongiorno, noto avvocato, e la conduttrice televisiva Michelle Hunziker.
Il Codice rosso prevede l’abbattimento dei tempi della giustizia per i reati sulle donne, quindi l’accelerazione dei procedimenti penali e l’intensificazione delle misure cautelari preventive per allontanare mariti e fidanzati pericolosi dalle donne che ricevono minacce, violenze o sono vittime di stalking.
Inoltre, si prevedono anche nuove fattispecie di reato: il revenge porn, ovvero la pratica di diffondere materiale a sfondo sessuale su Internet per umiliare la vittima, il reato di sfregio con l’acido e di matrimonio forzato.
Negli ultimi 6 anni, però, il Codice Rosso ha subito miglioramenti procedurali e ampliamenti giuridici, in particolare per includere misure contro il controllo coercitivo e lo stalking digitale (co‑cyberstalking). Alcuni tribunali segnalano criticità applicative, ma l’impatto complessivo sull’accelerazione delle denunce e l’introduzione di misure preventive è stato significativo, anche se tutto questo - stando ai numeri - ancora non basta.
Perché serve una legge specifica sul femminicidio in Italia
Nonostante i passi avanti compiuti dal legislatore italiano con il Codice Rosso e le sue successive integrazioni, il fenomeno del femminicidio continua a mostrare gravi criticità, soprattutto sul piano giudiziario. Negli ultimi anni, molte sentenze hanno evidenziato come la giustizia italiana fatichi ancora a riconoscere pienamente la specificità della violenza di genere, con un uso frequente di attenuanti che finiscono per alleggerire le pene anche in presenza di aggravanti ben definite, come la gravidanza della vittima o la relazione affettiva con l’aggressore.
Numerosi studi giuridici, insieme alle denunce di esperte come la magistrata Paola Di Nicola, hanno portato alla luce il problema del sessismo giudiziario: una tendenza, ancora radicata in alcuni ambiti della magistratura, a leggere i reati contro le donne attraverso una lente culturale distorta, che giustifica - più o meno esplicitamente - l’azione dell’aggressore. Termini come «raptus», «lite familiare» o «gelosia» continuano a comparire nelle motivazioni di sentenza, spostando parte della responsabilità sulla vittima e riducendo la portata del crimine.
Questo tipo di narrazione, oltre a minimizzare la gravità dell’atto, rafforza stereotipi di genere che colpiscono tanto le donne quanto gli uomini: le prime descritte come provocatrici, i secondi come incapaci di autocontrollo, guidati dall’istinto più che dalla volontà. Si tratta di una visione che mina le fondamenta stesse del principio di responsabilità penale.
Ddl femminicidio 2025 e l’introduzione del reato autonomo
Il 23 luglio 2025, il Senato ha approvato all’unanimità (161 voti favorevoli) il Ddl n. 1433 che introduce l’art. 577‑bis c.p., riconoscendo il femminicidio come reato autonomo: sarà punibile con l’ergastolo quando l’omicidio è commesso per motivi di misoginia, discriminazione, controllo, possesso o dominio, o conseguenza del rifiuto di instaurare o mantenere un rapporto affettivo.
Il testo della commissione integra la definizione aggiungendo esplicitamente atti di controllo, possesso, dominio o rifiuto affettivo tra le radici del reato. E prevede, inoltre:
- ergastolo obbligatorio;
- aggravanti ulteriori in presenza di minorenni o recidiva;
- confisca obbligatoria dei beni dell’aggressore;
- benefici penitenziari subordinati a valutazioni post-detentive di osservazione della personalità;
- formazione obbligatoria per magistrati, sanitari, forze dell’ordine;
- misure di protezione economica e supporto psicologico per orfani o vittime sopravvissute con gravi esiti.
Il Ddl è passato ora alla Camera per l’approvazione definitiva.
Cosa rischia chi commette un femminicidio oggi in Italia
La normativa italiana sulla violenza di genere è stata, come detto, progressivamente rafforzata negli ann. Chi commette atti di violenza contro le donne - come stalking, maltrattamenti, violenza sessuale o omicidio - può essere soggetto a misure cautelari immediate, come l’allontanamento d’urgenza e l’arresto obbligatorio in flagranza, oltre ad accedere al gratuito patrocinio senza limiti di reddito per le vittime.
Tuttavia, in attesa della definitiva approvazione del DDL femminicidio, questo reato non è ancora formalmente distinto da altri tipi di omicidio nel codice penale, e, ad oggi, viene punito ai sensi dell’articolo 575 con una pena base di 21 anni di reclusione, aumentabile con l’applicazione di aggravanti specifiche, come il rapporto affettivo con la vittima, la premeditazione o lo stato di gravidanza.
Una delle principali criticità, ad oggi, rimane proprio l’applicazione incoerente delle aggravanti nei processi: come più volte spiegato, in molti casi le pene sono ridotte per motivi legati a stereotipi culturali o attenuanti discutibili (gelosia, raptus, lite familiare). Un problema che il DDL punta a correggere, affermando chiaramente la responsabilità penale piena e non giustificabile di chi commette un femminicidio.
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