Una vicenda paradossale che colpisce ancora la reputazione degli addetti alla sicurezza dell’amministrazione Trump, pur riguardando esclusivamente informazioni private.
La criminalità informatica è in continua crescita ed evoluzione e non è poi così raro subire un furto di dati o di password. Quando la vittima è il capo dell’intelligence Usa, che percepisce uno stipendio da 177.000 euro annui per la protezione della sicurezza nazionale, non si può però fare a meno di notare il paradosso. Tulsi Gabbard, infatti, è suo malgrado protagonista di questa vicenda spiacevole, che sta a dir poco scuotendo l’opinione pubblica. I cittadini colgono l’ironia di questa notizia e non mancano nemmeno le critiche alla professionalità di Gabbard, che di certo sta affrontando un momento imbarazzante.
La contrapposizione tra il ruolo di Tulsi Gabbard e l’inadeguata tutela dagli attacchi hacker è evidentemente bizzarra, ma guardando alla vicenda con spirito critico si coglie un insegnamento importante che non ha nulla a che vedere con l’ambito lavorativo. La cybersicurezza viene troppo spesso sottovalutata, una leggerezza che può costare caro, sia economicamente che in termini reputazionali.
Il capo dell’intelligence Usa non è riuscito a proteggersi dal furto di password
Tulsi Gabbard, a capo dell’intelligence Usa, è stata vittima del furto delle proprie password personali tra il 2012 e il 2019. Proprio come un’enorme quantità di comuni cittadini è stata infatti vittima di una massiccia violazione di dati personali, con credenziali raccolte in combo list a disposizione dei criminali informatici. Proprio il capo della sicurezza americana avrebbe infatti usato password semplici, ripetute senza variazioni in numerosi siti web. Un errore banale e per questo molto comune che certo non ci si aspetta da chi svolge questo lavoro. Questa vicenda dovrebbe quindi servire da insegnamento, ricordando quanto spesso la cybersecurity viene sottovalutata e l’importanza delle precauzioni di base con cui ognuno può tutelarsi.
Gabbard al centro delle critiche, una falla nella sicurezza Usa?
Tulsi Gabbard è a capo dell’intelligence Usa, scelta dalla seconda amministrazione Trump per la sua carriera militare e politica. Lo stampo conservatore e le ideologie affini al tycoon ne fanno un personaggio capace di generare forti dissensi o smisurato apprezzamento, senza spazio per le vie di mezzo. Il suo percorso politico, peraltro, conta non poche contraddizioni e cambiamenti poco coerenti.
In servizio dal 2003 nel Military Police Corps (con il grado di Maggiore dal 2015) Gabbard ha partecipato alla guerra in Iraq e collezionato diverse onorificenze militari, accumulando esperienze degne di nota. Di fatto, dal punto di vista professionale non è possibile muoverle alcuna critica. La vicenda sul furto di password risale a un’epoca precedente rispetto all’attuale impegno nell’intelligence e comunque non ci sono prove che siano state usate credenziali poco sicure anche nei siti governativi. La stessa Gabbard, peraltro, ha avuto accesso a informazioni sensibili istituzionali già nel periodo in cui ha fatto parte della Commissione per i servizi armati, della sottocommissione per l’intelligence e le operazioni speciali e della Commissione per gli affari esteri (2013-2021). Anche se una parte delle violazioni coincide, non ci sono stati riflessi sulle informazioni governative.
Non appare quindi corretto contestare il ruolo di Gabbard per quanto accaduto, anche se si aprono delle riflessioni sulla trascuratezza della sicurezza digitale. Il capo dell’intelligence Usa non ha mai messo a repentaglio la sicurezza nazionale che è chiamata a proteggere, ma è senza dubbio stata alquanto superficiale nella tutela dei propri dati personali. Un risvolto che non ci si aspetta da una figura di questo calibro, peraltro impegnata militarmente, a capo della sicurezza di una delle nazioni più potenti del mondo.
Pur attenendosi esclusivamente alla realtà dei fatti, non si può quindi cancellare del tutto una certa preoccupazione, visto che il passo fino alla compromissione di dati ben più rilevanti potrebbe essere breve. Non dimentichiamo infatti dell’incidente di marzo, in cui una chat gruppo su Signal di cui faceva parte Gabbard (ma pure altre figure di spicco come il direttore della Cia John Ratcliffe) ha portato alla condivisione involontaria di dettagli su un’operazione militare riservata con il giornalista Jeffrey Goldberg. L’insieme non restituisce quindi un’immagine positiva della sicurezza nell’amministrazione Trump, per quanto non ci siano vere e proprie colpe addebitabili al capo dell’intelligence.
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