Buste paga, il governo sta discriminando le donne senza figli?

Ilena D’Errico

16/10/2023

16/10/2023 - 20:10

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Decontribuzione per le mamme lavoratrici e riflesso in busta paga: il governo sta discriminando le donne senza figli? Ecco le ragioni del bonus e le possibili conseguenze.

Buste paga, il governo sta discriminando le donne senza figli?

La legge di Bilancio 2024 contiene diverse misure volte a incentivare la natalità, già da tempo illustrata come una priorità dal governo Meloni. Fra queste, c’è la decontribuzione delle lavoratrici con 2 figli o più, che comporta di fatto un aumento – seppur non estremo – in busta paga. Il risvolto è immediato: le lavoratrici con figli guadagneranno di più di quelle che non li hanno o che ne hanno uno soltanto.

È altrettanto ovvia la ragione che ha spinto il governo ad approvare questa misura, ossia dare una spinta alla natalità senza ostacolare il lavoro e l’indipendenza femminile. Nel pieno della lotta al gender gap, tuttavia, si crea una distinzione rilevante anche all’interno dello stesso gruppo di donne lavoratrici, che favorisce le donne con più di 2 figli rispetto a tutte le altre. Il governo sta discriminando le donne senza figli?

Approfondiamo la natura di questa misura, le basi giuridiche e soprattutto l’intento politico che la motiva.

Busta paga più alta per le mamme con almeno 2 figli: è legittimo?

Dal punto di vista prettamente giuridico la discriminazione non è vietata a priori, ma è anzi bene accetta quando è volta a riequilibrare i diritti dei cittadini in favore di una minoranza o una categoria particolarmente lesa. L’intervento inserito in legge di Bilancio sulla decontribuzione potrebbe quindi rientrare perfettamente in questo obbiettivo, anche perché è difficile immaginare che il governo abbia approvato una manovra contraria alla legalità.

La valutazione di merito, se mai sarà sollecitata, spetta solo agli organi competenti e in primis alla Corte Costituzionale, ma di certo si fonderebbe sugli elementi oggettivi e sui dati che riguardano le lavoratrici. Presumibilmente, se il governo Meloni ha approvato la decontribuzione per le mamme con più figli significa che queste ultime sono più svantaggiate.

Ad esempio, la legge di Bilancio 2023 ha approvato Opzione donna, fissando l’età di accesso alla soglia dei 60 anni ma prevedendo degli “sconti” in base al numero di figli della lavoratrice. In questo caso, i dati obbiettivi sono più chiari: tanti più figli ha una lavoratrice e tanto più è probabile che abbia avuto difficoltà nel lavoro e abbia dovuto fare delle pause, risultando così svantaggiata dal punto di vista contributivo.

Lo stesso si può dire della soglia di 3.000 euro per i fringe benefit in favore dei genitori dipendenti, soprattutto perché si tratta di benefici ulteriori alla retribuzione. È invece più complessa la valutazione sulla decontribuzione, considerando che comporta un effettivo aumento dello stipendio, seppur quasi marginale.

Il governo Meloni sta discriminando le donne senza figli?

Giorgia Meloni, subito dopo la conferenza in Cdm sulla legge di Bilancio, ha illustrato gli obbiettivi del governo e motivato alcune delle misure approvate affermando che:

Il concetto che vogliamo stabilire è che una donna che mette al mondo almeno due figli, in una realtà in cui noi abbiamo disperato bisogno di invertire i dati sulla demografica, ha già offerto un importante contributo alla società, e quindi lo Stato cerca di compensare pagando i contributi previdenziali.

Viene quindi effettuata una valutazione viziata dall’intento politico, ovvero quello di incentivare le nascite e invertire la tendenza di calo demografico (anche per il sovraccarico del sistema pensionistico). Non un obbiettivo facile da conciliare con la tutela del lavoro femminile, tanto da comportare alcuni dubbi ai cittadini. Il divario di genere nel mondo del lavoro è un problema pressante per l’Italia, soprattutto se si guarda al gender pay gap, ossia proprio alla differenza di paga.

Proporre un cambiamento di questo genere rischia di essere percepito dalle donne come un’ulteriore forma di discriminazione, come se anziché essere tutelata la parità tra lavoratori e lavoratrici anche in quest’ultimo gruppo venissero fatte delle distinzioni qualitative. Per quanto l’intervento possa essere nobile, il rischio è di peggiorare ancora le condizioni delle lavoratrici.

L’effetto è che le donne che hanno scelto di non avere figli guadagneranno di meno, in barba alla libertà decisionale e all’autodeterminazione, così come guadagneranno di meno anche le donne che avrebbero voluto avere dei figli ma non possono, finendo per essere anziché aiutate ulteriormente messe sotto penalizzazione.

Per non parlare dell’ulteriore distinzione anche tra coloro che invece hanno figli: chi ne ha uno solo è escluso dal bonus, chi ne ha due ne può beneficiare fino al compimento di 10 anni del minore, chi ne ha più di 2 beneficia della decontribuzione fino al 18° anno del figlio più piccolo.

Una cosa è inserire dei benefici pratici per le mamme lavoratrici, tenendo conto del numero di figli per venire in contro alle difficoltà logistiche ed economiche e favorendo la conciliazione del lavoro con la maternità. Altra cosa è passare il messaggio che il valore professionale e sociale è direttamente proporzionale al numero di figli fatti. L’esatto opposto dell’emancipazione femminile o perlomeno è quanto è facilmente fraintendibile.

Di fatto l’incentivo alla natalità è uno dei cardini della linea del governo Meloni e conciliarlo con il lavoro femminile e con la scarsità di fondi per la Manovra 2024 non sarà stata cosa facile. Un aspetto problematico già chiaro da mesi, su cui non resta che attendere delle delucidazioni in più.

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