Come funzionerebbe il ddl matrimoni avanzato e poi subito revisionato dai deputati del Caroccio. Problemi di natura etica ed economica della proposta.
Si torna a parlare di bonus e questa volta ci pensa la Lega. La nuova proposta si concentra sui matrimoni religiosi, in netto calo nel nostro Paese rispetto alle unioni non ufficializzate da cerimonia in chiesa, e lo fa puntando all’elargizione di quote fino a 20mila euro per chi sceglie di ufficializzare la propria unione all’altare.
La controversia è palese e non passa sotto traccia: legare la possibilità di attingere a fondi statali a professioni di fede totalmente libere ed individuali è un tentativo degno di sgomento. La forza delle polemiche ha prodotto però degli effetti immediati sulle dichiarazioni del Carroccio.
Il disegno di legge infatti, dopo essere stata presentato alla Camera con un riferimento esclusivo alle celebrazioni canoniche cristiane, subisce quella che potremmo definire una retromarcia. Il primo firmatario Furgiuele precisa infatti che il ddl «durante il dibattito parlamentare sarà naturalmente allargato a tutti i matrimoni», anche a quelli celebrati in Comune.
Le origini di questa proposta
La nascita di questo provvedimento si deve al vice-capogruppo a Montecitorio, Domenico Furgiuele, al presidente della commissione Attività Produttive e Turismo, Alberto Gusmeroli e ai parlamentari Simone Billi, Ingrid Bisa e Umberto Pretto.
L’obiettivo dichiarato dell’operazione è riequilibrare il gap tra i matrimoni civili e religiosi. In questo tentativo si chiamano in causa anche i dati dell’Istat nei quali si legge come le unioni con rito civile siano cresciute rispetto ai livelli pre-pandemia (+0,7 per cento nel 2021 sul 2019) mentre quelli con rito ecclesiastico continuino a calare.
La connessione di questo fenomeno con la sfera economica viene dipinta dai deputati del Carroccio in questi termini: le ragioni «che allontanano le giovani coppie dall’altare e che le portano a prendere in considerazione solo ed esclusivamente il matrimonio civile» sono di natura economica.
Come funzionerebbe il bonus?
La formula prescelta è quella della detrazione del 20 per cento delle spese per il «matrimonio religioso», modificando la legge 90 del 3 agosto 2013. Vien da sé che l’interpretazione della voce «spese» possa essere omnicomprensiva passando da gli ornamenti in chiesa come fiori, libretti, abiti per gli sposi, servizio di ristorazione e bomboniere.
Con questa detrazione di imposta verrebbe fissato un tetto massimo di 20mila euro che gli sposi potrebbero ottenere in cinque quote annuali.
Vengono tuttavia fissati alcuni requisiti che ben si richiamano ai principi leghisti: i beneficiari devono avere la cittadinanza da almeno 10 anni. Sul fronte economico la coppia deve inoltre avere un reddito non superiore a 23mila euro o comunque non superiore a 11.500 euro a persona.
Gli effetti economici in un anno di una manovra come quella del bonus matrimoni sono, se possibile, ancor più degna di nota. La misura costerebbe in tutto 716 milioni di euro, cioè 143,2 milioni per le cinque quote annuali. Un «sì» che ricadrebbe sulle tasche di tutti i contribuenti, credenti e non.
La gravità dell’ideologia di fondo
Il tentativo di proporre il bonus soltanto a chi ufficializza attraverso la liturgia cristiana il rito del matrimonio scatena le polemiche fuori e dentro Palazzo Chigi.
L’accusa mossa al provvedimento è verosimilmente quella di restringere ulteriormente il perimetro dell’ideale di famiglia immaginata dalla destra: un quadro ultraconservatore che fa marcia indietro anche sui più semplici valori della società civile che professa la laicità dello Stato. Una realtà per definizione svincolata da un precetto di religione capace di incidere sull’iter legislativo democratico.
Sulla stessa scia non possiamo dimenticare le ultime recriminazioni del binomio madre/padre, da contrapporre alla formula genitore 1/genitore 2. La problematicità di un provvedimento simile sta infine nella discriminazione operata a livello interreligioso.
Tutti elementi di peso che, in connubio di tentativi di violazione dei più saldi diritti che lo Stato è chiamato a garantire, vogliono invece fare della discriminazione la propria cifra distintiva.
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