Le piattaforme per affitti brevi finiscono nel mirino per aver consentito ai coloni israeliani in Cisgiordania di pubblicare alloggi in insediamenti considerati illegali dal diritto internazionale.
L’ombra del conflitto israelo-palestinese si è abbattuta anche sulle piattaforme per affitti brevi. In particolare Airbnb e Booking.com sono finite nel mirino per aver consentito ai coloni israeliani in Cisgiordania di pubblicare annunci relativi ad alloggi situati in insediamenti considerati illegali dal diritto internazionale.
Le principali istituzioni internazionali - tra cui il Consiglio di Sicurezza e l’Assemblea Generale dell’ONU, la Corte Internazionale di Giustizia e il Comitato Internazionale della Croce Rossa - continuano infatti a considerare la Cisgiordania un territorio occupato da Israele.
Tra le accuse più rilevanti, giovedì scorso, l’Alta Corte d’Irlanda ha deciso di intervenire con maggiore fermezza, annullando la scelta della polizia irlandese di non aprire un’indagine sulla legittimità delle attività di Airbnb nei territori occupati. Il colosso americano, che ha il suo quartier generale per l’Europa e il Medio Oriente a Dublino, si trova ora al centro di una controversia molto delicata. Ma cosa implica, concretamente, la decisione della corte irlandese?
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Le accuse nei confronti di Airbnb per gli affitti nei territori occupati
L’Alta Corte d’Irlanda ha respinto la posizione della polizia irlandese secondo cui la questione in Cisgiordania non “rientrava nella sua giurisdizione”. Questa sentenza non comporta automaticamente l’apertura di un’indagine, ma obbliga la polizia a riesaminare il caso.
L’azione legale è stata promossa da Sadaka, un’organizzazione non governativa irlandese-palestinese, che aveva chiesto di verificare se Airbnb avesse violato la legge irlandese operando negli insediamenti. L’associazione ha attaccato duramente il comportamento della polizia, definendolo “legalmente errato e irrazionale”.
Secondo un rapporto pubblicato a settembre dalle Nazioni Unite, oltre 150 società - tra cui le più popolari piattaforme di affitti come Airbnb, Booking.com, Expedia e TripAdvisor - operano negli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Questa scelta è ampiamente criticata da funzionari, attivisti filo-palestinesi e organizzazioni per i diritti umani che, ormai da anni, continuano a chiedere che gli alloggi nei territori occupati vengano rimossi dai siti.
Nel novembre 2018, Airbnb aveva annunciato la rimozione di circa 200 inserzioni in Cisgiordania, ma l’anno successivo è stata costretta a revocare la decisione a causa di svariate citazioni in giudizio da parte di querelanti negli Stati Uniti e in Israele. In quell’occasione, l’azienda si impegnò a devolvere tutti i profitti derivanti da tali affitti a organizzazioni umanitarie attive a livello globale. Nel 2022, poi, la società ha dichiarato che avrebbe avvisato gli utenti intenzionati a prenotare alloggi negli insediamenti israeliani, segnalando che il territorio è un’area “contesa, colpita da conflitti o ad alto rischio” e che “potrebbe presentare pericoli maggiori”.
Affitti brevi in Cisgiordania: anche la Francia denuncia
Anche in Francia, il polverone sugli affitti nei territori occupati continua a imperversare. A Parigi, la Ligue Des Droits de l’Homme (LDH) ha depositato una denuncia contro Airbnb e Booking.com per complicità e occultamento aggravato di crimini di guerra. Patrick Baudouin, legale dell’organizzazione, ha dichiarato: “Queste multinazionali, offrendo i loro servizi e le loro forniture, consentono e facilitano, sia direttamente che indirettamente, la creazione e l’espansione degli insediamenti israeliani”.
Secondo le accuse dell’LDH, le pratiche di Airbnb e Booking.com rappresentano una forma di “assistenza al piano concertato israeliano di colonizzazione e distruzione della popolazione palestinese”. Inoltre, nel caso di Airbnb, la piattaforma non specifica che gli immobili in affitto si trovano in territorio palestinese. Al contrario, Booking.com esplicita che la struttura si trova in insediamenti israeliani situati in Palestina.
Badouin ha criticato duramente anche la scelta di entrambe le piattaforme di mostrare la vicinanza degli alloggi a siti turistici e punti di interesse, una pratica che contribuirebbe a “sostenere il turismo di occupazione”. Anche Francesca Albanese, relatrice speciale dell’ONU sui territori palestinesi occupati, ha denunciato le principali piattaforme di affitti per aver promosso un turismo che “legittima l’annessione” dei territori palestinesi.
Secondo un’inchiesta del Guardian pubblicata a febbraio 2025, sarebbero presenti 402 annunci di appartamenti, hotel e case situati negli insediamenti israeliani in Cisgiordania e a Gerusalemme Est: circa 350 erano su Airbnb e 52 su Booking.com, per un totale di 760 camere capaci di ospitare oltre 2.000 persone. E a lucrarci, secondo l’LDH, sarebbero persone che non dovrebbero trovarsi in quei luoghi: “Come minimo, nell’arco di un anno, con una commissione del 15% per un tasso di occupazione del 50% di alloggi offerti a 150 euro, il fatturato annuo in Cisgiordania ammonterebbe a oltre 3 milioni di euro”.
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