A metà gennaio sarà finalmente pronto il Job Act di Matteo Renzi. Per ora circolano solo indiscrezioni Di sicuro il neo segretario del Pd ambisce a minori tutele giuridiche per il lavoro per favorire l’occupazione. Quali i vantaggi di una simile proposta?
il Job Act di Matteo Renzi è, per ora, solo un fiorire di indiscrezioni. Il neo segretario del Pd ha affermato che la stesura definitiva del piano del lavoro verrà presentata nella seconda metà di gennaio. Bisogna dunque avere un po’ di pazienza. Nel frattempo, però, il dibattito prende piede. Qualcuno ha infatti già cominciato a fare la voce grossa.
Il piano del lavoro in due punti
Sebbene non sia ancora disponibile una versione definitiva del piano del lavoro di Renzi, quello che si sa (come mostra in maniera esauriente un articolo quì) è che il sindaco di Firenze sembra essere piuttosto deciso su almeno due punti:
- un contratto di lavoro per i neoassunti che non prevede, per un periodo di almeno tre anni, la tutela dell’articolo 18, durante il quale l’imprenditore non pagherebbe i contributi che sarebbero quindi a carico dello stato
- abolire la cassa integrazione, sostituendola con un assegno di disoccupazione
L’idea di un contratto "aperto"
Il primo punto non è una novità. Già un anno fa Tito Boeri e Pietro Garibaldi prepararono una bozza di disegno di legge, con il benestare del giurista Pietro Ichino, presentata in Parlamento dal senatore del Pd Paolo Nerozzi. Nel documento venivano introdotti elementi di flessibilità per le nuove assunzioni a tempo indeterminato.
In particolare, nei primi 3 anni successivi all’ingresso del lavoratore nell’azienda non sarebbe stato previsto l’obbligo di reintegro nell’organico nel caso di licenziamento illegittimo, così come stabilito dalla riforma Fornero.
In un’intervista ad un noto quotidiano nazionale, alla domanda "Quali sarebbero i vantaggi?" Boeri rispose
Grazie a una minore rigidità delle assunzioni, le aziende saranno incentivate a proporre dei contratti a tempo indeterminato al posto di molti inquadramenti a termine, di cui oggi si registra indubbiamente un abuso.
L’idea di Renzi è piuttosto simile a quella presentata da Boeri: il punto focale sta diventando il “contratto unico”, in apparenza fondato sul lavoro a tempo indeterminato, “con tutele crescenti per tutti i nuovi assunti” secondo gli ispiratori ma con l’abolizione delle tutele previste dall’art.18 per i primi tre anni. I lavoratori verrebbero dunque assunti con un contratto “aperto”.
L’abolizione della cassa integrazione
L’abolizione della cassa integrazione verrebbe sostituita da un meno protettivo assegno di disoccupazione della durata di due anni. La differenza? Dobbiamo ricordare che la CIG (Cassa Integrazione Guadagni) permette al lavoratore di "conservare" il proprio posto di lavoro fino alla scadenza, mentre l’assegno di disoccupazione presuppone il licenziamento del lavoratore.
Critiche in famiglia
Non sono ovviamente mancate le critiche alla proposta di Renzi. Quattro deputati del Pd (soprannominati i giovani Turchi) hanno espresso il loro dissenso nei confronti delle idee del neo segretario di partito in un documento chiamato Appunti per un Job Act, nel quale viene scritto che la proposta di Renzi
rischia di cadere nello stesso errore commesso con la legge Fornero, ovvero camminare sulla testa dei meccanismi che regolano il mercato del lavoro (i contratti), anziché sulle gambe della crescita e così di essere, nella migliore delle ipotesi, inutile.
Anche il vice ministro dell’Economia Stefano Fassina, deputato Pd, storce il naso di fronte alle prime indiscrezioni sul piano del lavoro del suo nuovo segretario. In un’intervista all’Avvenire (con una chiosa polemica nei confronti del premier Letta) ha dichiarato
Il piano lavoro di Matteo Renzi? Mi sembra l’ultima cosa da fare: il Paese è come un’auto rimasta completamente a secco. Serve la benzina per farla ripartire. Il lavoro si crea con politiche macroeconomiche di sostegno alla domanda aggregata, favorendo investimenti e consumi interni. È deprimente il ritorno dell’ossessione sull’articolo 18 e sulle regole dopo i conclamati fallimenti della ricetta neoliberista. I rottamatori dovrebbero rottamare anche i falliti paradigmi culturali ancora cari agli interessi più forti.Eppure il premier Letta ha accolto con favore l’idea.
Da parte loro i renziani difendono le idee del nuovo leader. Davide Faraone (responsabile welfare del Pd, uno degli ideatori del Job Act) ha dichiarato
Resta tutto, non vogliamo togliere nulla, vogliamo solo aggiungere. Non aboliamo l’articolo 18, non aboliamo i contratti a progetto e non aboliamo i contratti a tempo indeterminato. Anzi. Quello che si vuole è guardare la realtà: spesso c’è un uso improprio dei contratti a progetto. E il contratto a tempo indeterminato è diventato un’araba fenice. Vogliamo aiutare i giovani e dare un’alternativa al deserto della precarietà.
Quali vantaggi?
Le idee che saranno, presumibilmente, contenute nel piano del lavoro di Renzi lasciano trarre due conclusioni su ciò che sta alla base della possibile proposta del neo segretario:
- si vuole aumentare l’occupazione, soprattutto quella giovanile, tramite una riduzione delle tutele per i neo assunti, in base al credo che una qualsiasi azienda sia piuttosto restìa ad assumere “per paura” di doversi tenere il lavoratore a vita;
- a livello di sistema vale ciò che può essere (con molta cautela) verosimile per il singolo imprenditore, ossia che è conveniente avere dipendenti pagati poco e più facilmente licenziabili, con meno diritti, pagando meno contributi.
Entrambe queste fondamenta sono poco solide. Bisogna infatti andare a guardare i rapporti di lavoro esistenti. L’articolo 18 risulta essere già abbastanza depotenziato (il lavoratore licenziato viene oramai reintegrato sono nel caso di discriminazione "evidente"). Le assunzioni vengono effettuate sulla base del pacchetto Treu del 1997, ossia tramite le forme contrattuali atipiche, rinvigorito dalla legge 30 di Berlusconi-Sacconi.
La disoccupazione, intanto, specie quella giovanile al 40%, aumenta. E secondo Faraone i contratti atipici non verranno eliminati con il Job Act. Perchè allora le imprese dovrebbero trovare conveniente utilizzare un contratto unico?
Questo perchè è la crisi che fa aumentare la disoccupazione, non le tutele. Come ha ricordato Fassina, bisogna effettuare politiche macroeconomiche di sostegno alla domanda. Altrimenti non se ne esce più. La riduzione delle tutele per il lavoratore tende inoltre ad indebolirne il potere contrattuale e a far diminuire le retribuzioni.
E’ evidente allora che ciò che può avere senso per il singolo imprenditore non è valido a livello di sistema. Se tutti i lavoratori, infatti, vengono pagati meno, consumeranno poco; il mercato non si allarga, la domanda non cresce, anzi diminuisce e peggiora la situazione.
Attenzione, dunque, a far passare proposte dannose per l’economia. Ciò che sembra nuovo è in realtà già in essere da ben 25 anni.
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