Perché la Cop26 è stata quasi un fallimento

Andrea Pastore

14 Novembre 2021 - 18:33

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La Cop26 è terminata. L’accordo finale risulta però un compromesso al ribasso: vediamo cosa è stato deciso alla conclusione dei giochi.

Perché la Cop26 è stata quasi un fallimento

È terminata ieri la Cop26, ossia la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2021, detta anche conferenza di Glasgow e presieduta dal Regno Unito nella persona di Alok Sharma.

Dall’accordo finale sono troppi, purtroppo, i passi indietro: possiamo dire che sia stata quasi un fallimento.

I presupposti, come spesso accade per queste iniziative, sono stati dei migliori: entusiasmo, belle parole, proclami e frasi d’effetto in vista dell’apertura; interessi dominanti e compromessi al ribasso per la conclusione degli accordi.

Tutto questo fiato sprecato mentre il nostro pianeta esala i suoi ultimi respiri.

Alla fine dei fatti l’accordo riprende la scia della Cop21 - i c.d. Trattati di Parigi -, in cui l’obiettivo principale è quello di contenere l’aumento delle temperature medie globali entro l’1,5 C° dei livelli preindustriali; ma ciò potrà essere possibile solo se verranno ridotte le emissioni di gas serra.

Allora perché l’accordo raggiunto dalla Cop26 - visto che riafferma i punti di Parigi per quel che riguarda lo stop dell’aumento delle temperature entro l’1,5 C° - è stato quasi un fallimento? La risposta risiede nella politica.

Le grandi nazioni e la questione del Carbone

Nell’accordo al titolo IV Art. 36 - che inizia con la parola “invita” - viene ribadito, infatti, che la Conferenza “invita” le parti ad accelerare lo sviluppo e la diffusione di tecnologie e politiche per compiere una transizione energetica sostenibile, e di velocizzare il processo di eliminazione graduale - phase-out - della produzione di energia a carbone.

Ma qualcosa è cambiato all’ultimo minuto: la terminologia phase-out è stata sostituita dal termine phase-down, che significa ridurre in maniera graduale, non eliminare.

In sintesi, non solo le parti invitano - senza nessun potere superiore che le obbliga, in fondo sembra che lo Stato di Natura hobbesiano nei rapporti internazionale sia confermato - gentilmente se stesse al compimento della transizione così agognata: le nazioni di tutto il mondo hanno accettato - chi tra esse con buon grado - la promessa di ridurre gradualmente l’utilizzo del carbone, ma non di eliminarlo totalmente.

La proposta formale di cambio di terminologia - da phase-out a phase-down - nel punto 36 è stato richiesto dall’India, affermando che i paesi in via di sviluppo hanno “il diritto ad un loro uso responsabile”.

Ad esporsi è stata l’India, ma la linea è condivisa da molte altre potenze mondiali: Cina, Stati Uniti, Australia, Pakistan e Sudafrica sono state sostanzialmente d’accordo: alla faccia dei paesi in via di sviluppo.

I primi segnali si erano già notati d’altronde, precisamente quando 40 paesi membri delle Conferenza avevano intenzione di stipulare un accordo che vietasse la produzione di energia elettrica tramite l’utilizzo di carbone. Di fatti, i contrari sono stati quattro: Stati Uniti, Cina, India e Australia hanno rifiutato.

Un altro punto a sfavore del Patto di Glasgow è stato quello che riguarda i fondi per i (veri) paesi in via di sviluppo.

La questione dei fondi ai paesi più poveri

Nell’accordo finale è presente il fondo di cento miliardi di dollari l’anno per i paesi più poveri. Questo fondo permetterebbe la transizione energetica per quei paesi che non hanno le risorse necessarie per avviare in maniera autonoma questo processo.

Al titolo V recante Finanza, trasferimento tecnologico e sviluppo per capacità di mitigazione e adattamento, al punto 43, però, è sparito il limite di attivazione del fondo nel 2023. Si puntualizza al punto 46 che i paesi sviluppati dovranno adempiere a questa spesa almeno per il 2025. Su come istituire il fondo, però, nulla di concreto.

Alla fine dei conti, molte parole al vento, ma almeno la questione è ora sulla bocca di tutti i leader mondiali. Osserviamo che questa Conferenza, nonostante accordi senza una progettualità precisa con tanto di date e promesse aleatorie, è stata comunque portata avanti da 197 paesi, tutti intorno ad un tavolo a parlare della questione climatica: la preoccupazione esiste ma non basta.

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