Il New deal digitale dell’America dinanzi alla scuola asiatica

Achille Piotti

23 Novembre 2021 - 07:32

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La Corte suprema americana vuole ridimensionare la posizione dominante nei social del gruppo Facebook. In Cina, invece, il partito comunista ha già bloccato i giganti digitali.

Il New deal digitale dell’America dinanzi alla scuola asiatica

Ha fatto discutere recentemente la decisione della Corte suprema americana contro l’antitrust guidato dall’accademico Tim Wu, apostolo del giurista e antimonopolista Brandeis, che vuole ridimensionare la posizione dominante del gruppo Facebook nei social media.

La lunghezza e i risultati in uno stato di diritto sono quindi deludenti se comparati alle modalità spicce del partito unico, quello comunista cinese, che argina in un batter d’occhio i giganti digitali come Alibaba, Tencent o le stesse criptovalute allorché la pandemia concentra sempre di più i poteri nella rete.

Il partito comunista cinese in una vena pedagogica, preoccupato dalle derive del confinamento sull’infanzia, ha varato inoltre una legge per regolare il numero di ore che i bambini passeranno davanti ai videogiochi. Un altro tassello alle velleità pressoché totalitarie che si aggiunge a quello del riconoscimento facciale dei suoi soggetti.

In seguito a questa stretta regolamentare, Katie Wood che, per sua ammissione e rivelazione divina, puntò tutto sul Big Tech nel 2012 in seguito ai risultati catastrofici registrati da quello che oggi è il suo strepitoso fondo Ark Invest, alla stregua di altri investitori è quindi uscita dal mercato cinese. Ciò ha scaturito, in concomitanza alle difficoltà del colosso immobiliare Evergrande, una correzione significativa dei valori cinesi rispetto a quelli americani.

La dirigenza del partito unico della Repubblica Popolare, come nella fallita collaborazione internazionale per determinare le cause della diffusione del virus, rimane tuttavia indifferente alla pressione e opinione internazionale. Primeggia invece, insieme alla sua opacità, un’efficace esecuzione delle sue politiche, specchio di una dittatura assoluta e illuminata. Non c’è un sistema di pesi e contrappesi, come invocato da Brandeis negli Stati Uniti o dalla scuola ordoliberale nella Germania del dopo guerra, che venga in soccorso non tanto alle grandi concentrazioni ma alle piccole e medie imprese, all’ innovazione tecnologica e alla sua libera concorrenza.

Gli Stati Uniti, democrazia occidentale di riferimento, lavorano quindi a rilento su determinate e importanti questioni come il Big Tech. Le potentissime lobby dei gruppi digitali a Washington influenzano il passo delle riforme e l’interpretazione della legge antitrust varata dal New Deal di Roosvelt per tenere a bada i grossi gruppi di allora: petroliferi, ferroviari e telefonici.

Negli anni 80 di Ronald Reagan, contrassegnati dall’inflazione e dal pensiero ortodosso della scuola di Chicago, l’antitrust è andato delineandosi come il trionfo di prezzi bassi a tutti i costi. Oggi, in un contesto deflazionista, ci si può interrogare se ciò rispecchi necessariamente l’interesse dei consumatori per via dei volumi giganteschi che transitano in forma monopolistica tramite la rete.

Nel frattempo, sul fronte democratico, la decisione delle autorità sudcoreane di rimettere in discussione la famosa Apple Tax, una commissione del 30% sui prodotti venduti nel così detto ecosistema Apple, sta facendo scuola anche in America. Ecosistema, termine questo caro all’ecologismo ma impiegato ora dalla più grande azienda mondiale per giustificare i suoi profitti in un sistema capitalistico ad architettura chiusa dove si possono fatturare proficue commissioni al transito della merce.

Il lavoro dell’amministrazione Biden per coniare un New Deal in quest’età digitale rimane ancora lungo e arduo rispetto al regime del partito unico cinese o semplicemente rispetto all’ efficacia sudcoreana, ispirata, vien voglia di dire, alla serie televisiva Squid Game di questi tempi in auge.

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