Licenziamento per diffamazione: basta un’accusa su Facebook per perdere il lavoro

Maria Stella Rombolà

27 Giugno 2018 - 10:33

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Una importante sentenza della Cassazione ha dichiarato legittimo il licenziamento per diffamazione sui social network derivante da una grave offesa protratta da un dipendente nei confronti dell’azienda o del suo rappresentante legale.

Licenziamento per diffamazione: basta un’accusa su Facebook per perdere il lavoro

La Corte di Cassazione ha ritenuto legittimo il licenziamento per diffamazione di un dipendente che abbia offeso gravemente sui social network l’azienda per cui lavora e il suo rappresentante legale; in questo caso la diffamazione rappresenta una giusta causa di licenziamento e al datore di lavoro non serve altro per procedere.

La questione è stata sollevata dal caso di una lavoratrice che si è appellata alla Suprema Corte per una causa di licenziamento per diffamazione a seguito di offese recate all’azienda dalla stessa sui social. La Cassazione ha ribadito il parere dei tribunali che già si erano espressi nel merito e ha confermato il licenziamento per giusta causa della donna.

Il caso

Una lavoratrice ha pubblicato sulla propria bacheca Facebook commenti offensivi verso l’azienda per cui lavorava anche se non facendo figurare direttamente l’identità del rappresentante legale.

Per questo è stata licenziata il 29 maggio 2012 dal suo datore di lavoro. Il licenziamento è stato confermato dalle sentenze delle corti a cui si è appellata: prima il Tribunale di Forlì e poi la Corte di appello di Bologna hanno respinto il ricorso proposto dalla donna che chiedeva l’accertamento del licenziamento per giusta causa.

La Corte di appello in particolare si era espressa sulla questione affermando che la condotta della ricorrente avesse provocato una frattura inevitabile del rapporto fiduciario e che pertanto il licenziamento per giusta causa fosse legittimo.

Ad alimentare la questione anche le dichiarazioni di testimoni che negavano che la ricorrente stesse vivendo condizioni particolarmente stressanti sul luogo di lavoro; tali dichiarazioni hanno reso inutile la prescrizione della Commissione tecnica dell’AUSL di Cesena che aveva certificato le capacità della lavoratrice ma “con limitazioni saltuarie relative all’esposizione a situazioni stressanti sul piano psicofisico.”

Le ragioni della ricorrente

La donna ha portato avanti il ricorso appellandosi alla Corte di Cassazione sulla base delle seguenti ragioni:

  • la violazione dell’articolo 2119 codice civile, per omessa valutazione dell’elemento soggettivo;
  • difetto di proporzionalità tra infrazione e sanzione, in quanto la condotta frutto di un episodio sporadico;
  • omesso esame della documentazione prodotta dalla Commissione tecnica dell’AUSL di Cesena attestante il difettoso stato di salute psichica della donna.

Appellandosi a queste motivazioni quindi la ricorrente ha chiesto alla Suprema Corte di rivedere le sentenze precedenti e lo stesso licenziamento.

La sentenza finale

La Cassazione conferma la valutazione effettuata nei gradi precedenti ribadendo che le valutazioni relative all’intenzionalità della condotta siano state eseguite in modo corretto e rilevando quindi l’assenza di difetti nelle decisioni prese.

In merito alla prima questione sollevata dalla ricorrente, quella cioè relativa alla proporzionalità tra infrazione e sanzione, la Corte sottolinea che questa decisione viene rimessa al giudice di merito per il quale l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solo in presenza di un inadempimento grave degli obblighi contrattuali.

In risposta alla seconda questione la Corte ribadisce che la pubblicazione di un messaggio diffamatorio tramite social network rientra nella fattispecie di diffamazione, per la potenzialità che questo strumento ha di raggiungere un numero indeterminato di utenti; il fatto poi che il nominativo del rappresentante legale dell’azienda non sia stato reso esplicito non risulta essere un elemento rilevante poiché il destinatario era comunque facilmente identificabile.

Infine in risposta all’ultima ragione del ricorso la Cassazione semplicemente non ha ritenuto decisiva la documentazione prodotta dalla Commissione AUSL di Cesena e ciò non costituisce vizio specifico denunciabile per cassazione.

Sulla base di quanto detto fin qui la Corte ha deciso con la Sentenza n. 10280 dell’8 febbraio 2018 il rigetto del ricorso e ha confermato il licenziamento per diffamazione.

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