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di Glauco Maggi

Le vaccinazioni in America? Volano e si avvicinano al gregge

Glauco Maggi

29 marzo 2021

Le vaccinazioni in America? Volano e si avvicinano al gregge

In America le vaccinazioni continuano a ritmo serrato e per l’estate si potrebbe raggiungere l’obiettivo dell’immunità di gregge.

Biden, nella prima conferenza stampa tenuta il 25 marzo dopo oltre due mesi dal giuramento, non ha fatto fare alcuna domanda al giornalista di Fox News, né ad alcun altro che non fosse rigidamente allineato all’agenda sua e del partito Democratico. Del resto, se Twitter e gli altri social networks non permettono neppure ad un ex presidente, ed ex capo del partito oggi all’opposizione, di parlare dalle loro piattaforme che una volta erano il simbolo della “libertà di Internet” e della difesa del Primo Emendamento, perché stupirsi? Siamo nel regime dei media allineati, e la sola fortuna per il pubblico è che almeno le notizie ufficiali che vengono dal mondo sanitario sono buone. Anzi ottime, di fondata speranza.

Ormai, le discussioni sono sulla “immunità di gregge”. Quando l’avremo? Chi dice giugno, chi dice settembre, ma che l’estate costituisca una scadenza attendibile per la fine dell’incubo è sentimento diffuso tra gli scienziati. I più ottimisti sono quelli come il professor Marty Makary della John Hopkins School of Medicine. Per stimare la percentuale necessaria a creare il “gregge” il professore pensa che sia pure da considerare la fetta non indifferente di popolazione (sarebbe il 20% secondo Rochelle Walensky, direttore del CDC) che ha sviluppato gli anticorpi essendo stata malata di Covid. Sul Wall Street Journal del 25 marzo, Makary ha scritto che “l’immunità di gregge è vicina, nonostante il diniego del dottor Anthony Fauci. La sua stima che ci vorranno dal 70% all’85% di vaccinati ignora coloro che sono stati già infettati”. Si può ancora litigare, insomma, ma solo sui tempi della fine di questo COVID-19 (sulle varianti, chi vivrà vedrà).

Sul passato, la storia è scritta. Fa ridere che Biden continui a sostenere per misera propaganda di aver trovato “un disastro” quando è arrivato a Washington, e di aver iniziato lui da solo, entrato alla Casa Bianca il 20 gennaio, la campagna per la produzione e somministrazione organizzata dei vaccini. Non è vero, tutti sanno che Trump ha fatto miracoli e fa piangere che nessun giornalista gli abbia fatto notare che lui stesso, Biden, aveva avuto la prima inoculazione Pfizer il 21 dicembre 2020 (in diretta TV), e la seconda l’11 gennaio.

Fa niente. La cosa davvero importante per la gente, tra quelle dette da Biden, è il nuovo traguardo che si è posto nella battaglia anti COVID-19: nei primi 100 giorni del suo governo, ha promesso, sarà raggiunta la cifra tonda di 200 milioni di dosi inoculate. E’ una scommessa di fatto già vinta, perché il ritmo quotidiano medio attuale è di circa 2,5 milioni di iniezioni al giorno. Con punte straordinarie. La stessa Casa Bianca, venerdì 26, ha annunciato che il giorno prima è stato toccato il record di 3,4 milioni di dosi somministrate. Ci sono dentro anch’io, avendo avuto venerdì 25 la seconda dose (Minerva) nella farmacia Walgreens del mio quartiere a New York.

Una campagna vaccinazione inarrestabile

La campagna non potrà che accelerare una volta che i vaccini di Astrazeneca, al terzo stadio di sperimentazione e quindi prossimi alla autorizzazione pure dalla FDA americana, si aggiungeranno a quelli di Pfizer, Moderna e Johnson & Johnson in distribuzione da tempo. Inoltre, ad uno ad uno, gli Stati stanno allargando la eleggibilità dei soggetti che possono avere il vaccino, scendendo dalle fasce anziane over 70 e over 65 delle prime settimane all’intera popolazione adulta. L’Alaska ha già eliminato gli scaglioni di anzianità da tempo e la Sud Carolina, che sarà l’ultima, ha fissato il via libera per tutti il 3 maggio. Nella Grande Mela, da una settimana sono ammessi al vaccino gli over 50.

Il 24 marzo il CDC (Centro federale per il Controllo delle malattie) ha comunicato che il 26% della popolazione aveva avuto almeno una dose, e che il 14% era completamente vaccinato (con le due dosi di Pfizer o Moderna, o quella singola di Johnson & Johnson). Gli americani che hanno avuto almeno una dose prima del 24 marzo sono stati 85,5 milioni, e di questi 46,4 milioni sono stati vaccinati completamente. A quella velocità, l’agenzia governativa CDC calcola il 50% di cittadini vaccinati “almeno con una dose” entro l’11 maggio, il 70% entro il 20 giugno, il 90% entro il 29 luglio. Sempre alla data del 24 marzo, le dosi distribuite dall’amministrazione agli Stati e alle agenzie federali sono state 169,2 milioni.

Poiché il compito di gestire la campagna avviene sulla base del federalismo, alla media nazionale del 14% di “interamente vaccinati” concorrono i diversi risultati nei 50 Stati: dal 10% (il minimo) dello Utah al 21% (il massimo) del Nuovo Messico, con New York State e California nel mezzo, al 13% e al 14% rispettivamente. La media nazionale del tasso di vaccinazioni eseguite in rapporto alle dose distribuite, che si può considerare la misura dell’efficienza degli amministratori e dei sistemi sanitari locali, è del 77%. Su questo preciso tasso si assestano gli Stati molto popolosi della California e di New York.

La corsa spedita delle istituzioni - amministrative e aziendali - a produrre e a diffondere i vaccini è la condicio sine qua non per il successo della campagna. Ma sono le persone in carne ed ossa che dicono l’ultima parola, perché vaccinarsi è comunque una scelta volontaria. Buone nuove anche qui. Il 5 marzo il sondaggio del Pew Research Center ha trovato che dal 60% di americani che avevano intenzione di vaccinarsi nel novembre scorso si è passati in febbraio al 70%. Il restante 30% è diviso tra un 15% orientato “decisamente" a non vaccinarsi e un 15% che “probabilmente non lo farà”.

Parallelamente alla crescita della voglia di vaccinarsi aumenta quella delle persone già vaccinate a esigere che tutti lo facciano. Secondo un sondaggio Reuters pubblicato il 12 marzo, per il 72% degli americani è importante sapere "se le persone intorno a me sono state vaccinate”. Una maggioranza - il 62% - ha affermato che le persone non vaccinate non dovrebbero essere autorizzate a viaggiare in aereo. Il 55% pensa che le persone non vaccinate non dovrebbero allenarsi nelle palestre pubbliche, entrare nei cinema o assistere a concerti. Alla domanda sul posto di lavoro, il 60% ha detto di voler lavorare per un datore di lavoro «che richiede a tutti di ottenere un vaccino contro il coronavirus prima di tornare in ufficio» e il 56% pensa che i lavoratori non vaccinati dovrebbero rimanere a casa.

Con l’aumento dei vaccinati è più che probabile che qualche iniziativa restrittiva contro i non vaccinati verrà presa, dai privati e/o dalle autorità pubbliche. Per esempio si parla da settimane, non solo negli USA, di “passaporto vaccinale” a proposito di viaggi aerei e di ripresa turistica. In pratica, in America potrebbe bastare il documento rilasciato dal CDC all’atto delle vaccinazioni, oppure una attestazione ufficiale validata dal CDC di “immunità naturale” per coloro che hanno gli anticorpi dopo aver avuto il Covid. La pressione psicologica del successo della campagna sulla opinione pubblica, e le limitazioni concrete alle attività personali di base e di svago, potranno giocare un ruolo importante nel far crollare i riottosi. C’è da sperarlo se si vuole debellare il prima possibile il coronavirus.

Glauco Maggi

Giornalista dal 1978, vive a New York dal 2000 ed è l'occhio e la penna italiana in fatto di politica, finanza ed economia americana per varie testate nazionali

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