Il lavoro si paga, altrimenti è volontariato. Ma il cuneo fiscale è come il default russo

Mauro Bottarelli

01/05/2022

25/10/2022 - 12:02

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Tra chef-star amanti del toyotismo e classifiche occupazionali da Terzo mondo, l’Italia necessita di una riforma «tedesca» e non comode giungle contrattuali. Ma se lo Stato ha i debiti, come si fa?

Il lavoro si paga, altrimenti è volontariato. Ma il cuneo fiscale è come il default russo

Benvenuti nel Primo Maggio dell’Italia post-Covid. Oggi, infatti, la festa del Lavoro coincide con la pressoché totale decadenza del green pass. Ma a turbare lo spirito della ricorrenza, oltre alla guerra, ci pensano alcuni dati di fatto sempre più stridenti e meno occultabili, al netto della Spoon River permanente di 3 morti sul lavoro al giorno. Stando all’ultimo dossier Eurostat, quattro regioni del Mezzogiorno (Campania, Puglia, Sicilia e Calabria) vantano l’indice di occupazione più basso in assoluto, al pari della Guyana francese. Fin qui, materiale da statistica buono per le titolazioni a effetto.

Un po’ come certe polemiche pop innescate da chef stellati e molto vip con il vizietto dei conti astronomici e dei ritmi di lavoro toyotisti: a loro dire, i giovani non hanno più voglia di lavorare. Faticano a trovare cuochi e camerieri, perché tutti fissati con il weekend libero. Probabilmente hanno ragione. Resta il fatto che nessuna di queste celebrità del fornello abbia voluto fornire le cifre delle retribuzioni che offre, a fronte di una cotoletta fatta pagare come fosse un lingotto uscito da Fort Knox.

Il problema grave subentra quando questa disputa da social network si amplia e generalizza il concetto, espandendolo: la gavetta è necessaria, poiché negli anni del boom economico di questo Paese i giovani erano ben contenti di formarsi gratis per un periodo, al fine di imparare bene un mestiere. Verissimo. Manca un pezzo, però. In quell’Italia, la cui propensione a indebitarsi stiamo pagandola caramente adesso e ancora di più nei prossimi anni, al termine della gavetta, se non avevi rubato o portato a letto la moglie del titolare, l’assunzione era garantita. In regola, a tempo indeterminato, con contributi, ferie, malattia e tredicesima.

Insomma, do ut des su cui si basava un’idea di imprenditoria sana. Ora pare mancare strutturalmente una parte della locuzione latina . Per una ragione semplice, ancorché apparentemente inconfessabile (forse per vergogna o residuo di decenza): anni di deregulation dettata dai ritmi di lavoro e produzione rivoluzionati dalla globalizzazione hanno fatto saltare un concetto cardine. Ovvero che il lavoro si paga. Altrimenti è volontariato. E quest’ultimo, proprio in punta di nobiltà, si fa verso chi ha bisogno. Non a favore di chi punta - giustamente - al profitto.

Il paradosso di questo Paese sta tutto qui. Non a caso, tutti puntano il dito contro Amazon. Datori di lavoro e sindacati, commercianti e politici. E il problema non sta nella concorrenza sleale garantita dai volumi su cui può operare dumping il gigante di Jeff Bezos, bensì sul peccato originale: ammettere il proprio toyotismo, a differenza di certi chef indignati dalla gioventù indolente ma pagandolo. Di Amazon hanno fatto scandalo i ritmi, mai le retribuzioni o le loro violazioni.

E qui non serve, trovandoci a discutere nell’anno del Signore 2022, scomodare il Gian Maria Volontè de La classe operaia va in paradiso, qui la questione è totalmente interclassista. Pensiamo alla polemica sulle ospitate a pagamento dei commentatori nei talk-show: per quale motivo un professionista dovrebbe perdere il suo tempo in uno studio televisivo gratis? Se l’emittente lo ha invitato è perché lo ritiene quantomeno interessante da ascoltare, quindi prodromico a un potenziale aumento degli ascolti. Cioè, la versione mediatica del profitto. Ergo, va pagato. Lui come l’operaio. Perché il lavoro si paga. E, possibilmente, sarebbe carino anche saldare il dovuto con il fisco, al netto di una giungla di norme e regole, anticipi e crediti d’imposta.

E qui subentra il cortocircuito su cui si basa lo status quo italiano: chi evade lo fa per legittima difesa della sua impresa e dei suoi lavoratori, poiché il Fisco è esoso nelle sue richieste. Quest’ultimo, però, per tutta risposta fa notare che un’evasione fiscale come quella italiana non ha pari al mondo, quindi occorre alzare la tasse e stringere i controllo per tamponare i danni procurati alla casse pubbliche dai troppi furbetti. Eliminando dal novero dei potenziali responsabili di questo gioco al cane che si morde la coda lavoratori dipendenti e pensionati, essendo questi ultimi oggetto di trattenute alla fonte, ecco che il punto di sintesi sembra materializzarsi nella versione italica di Aspettando Godot, la trasposizione un po’ farsesca del dramma di Beckett declinato in ufficio della mega-ditta di Fantozzi.

Il cuneo fiscale, vero e proprio totem cui ruota attorno il dibattito. Ovvero, le tasse sul lavoro. Quelle che gravano pesantemente sulle imprese e sui salari dei lavoratori, la base stessa del famoso calcolo per cui un dipendenti costa all’azienda il doppio di quello che percepisce per contratto. Perché si tratta di un totem? Perché è la Salerno-Reggio Calabria dei provvedimenti: non conosce una fine, è un cantiere di dibattito aperto da decenni che, per una ragione o per l’altra, non arriva mai a una conclusione. Solo provvedimenti spot, ovvero alleggerimenti dei carichi tramite stanziamenti in seno al DEF di turno per spingere un po’ l’economia in un momento particolare: dopodiché, si torna alla giungla contrattuale, all’evasione più o meno di autodifesa e agli stage non pagati in azienda.

L’attuale dibattito che contrappone ministero del Lavoro e Confindustria sull’automatismo che dovrebbe legare aiuti alle imprese a rinnovi contrattuali e aumenti salariali per contrastare l’inflazione è figlio legittimo di questa pantomima di eterno rinvio. Il cuneo fiscale è come il default della Russia: tutti lo evocano ma tutti lo attendono sempre per il giorno seguente. E il drastico cambio di approccio dell’associazione degli industriali verso il governo Draghi, dopo i primi mesi di idillio quasi parossistico, sta tutta qui: si pensava che l’esecutivo dei Migliori avrebbe portato a termine la riforma delle riforme, l’intervento sul cuneo fiscale grazie anche ai mitologici 209 miliardi del Recovery Fund. Il problema è che quel denaro serve a tamponare le falle pregresse e arriva con il contagocce, oltre a dover essere contabilizzato per ciò che è: solo in parte a fondo perduto, per il resto va restituito.

Ed eccoci, quindi, alla vigilia di un Consiglio dei ministri rimandato all’ultimo momento proprio perché per tamponare il caro-energia di famiglie e imprese ci sono in cassa solo 6 miliardi. Praticamente, il dito che tenta di arginare la diga del Vajont. Non sarà che nell’Italia gattopardesca del lavoro, alla fine il ricorso alla giungla contrattuale, al nero strutturale, ai condoni sistemici e alla precarietà istituzionalizzata faccia un po’ comodo a tutti? Non sarà che negli anni sono stati costruiti troppi e affrettati altarini laici verso certe contorsioni del giuslavorismo spacciate per riforme, le quali in nome unicamente del non scontentare nessuno - applicando cioè preventivamente il rossetto della concertazione sul proverbiale maiale che si stavano truccando - hanno appunto ottenuto l’unico risultato di far proliferare contratti di lavoro di ogni foggia e risma?

Tutti però apparentemente incentrati su un’insostenibilità di fondo che si sostanzia nel continuo ricorso a esternalizzazioni, outsourcing, delocalizzazioni, contratti di solidarietà a seguito di razionalizzazioni del personale, cassa integrazione per chi ne può usufruire e chi più ne ha, più ne metta. Non servirebbe davvero la tanto evocata - a sproposito - riforma Hartz, istituita dal secondo governo Schroeder in Germania e frutto realmente di un do ut des fattivo fra imprese e lavoratori? I quali hanno diritti ma anche chiari doveri. Mentre i primi possono godere di grande flessibilità e sindacati collaborativi: ma alla prima furbata su contratti e salari, passano guai seri. Se poi evadono, questa pratica diviene immediatamente anche il loro sogno per il futuro: dal carcere, però.

Casualmente, in Germania un operaio può pagare affitto e bollette senza negare l’università al figlio. E se perde il lavoro, può contare su uno Stato non indebitato fino al collo che lo sostiene senza bisogno di navigator. Casualmente, dopo la Brexit, i giovani italiani puntano soprattutto Berlino per lavorare. Magari anche in un ristorante come camerieri. Magari non stellato. Magari che serve volgarissimi wurstel e crauti. Ma paga il giusto.

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