La Francia dice no alla flessibilità sul lavoro. Ecco cosa comporta il Jobs Act

Livio Spadaro

18/05/2016

18/05/2016 - 13:02

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La Francia non vuole il Jobs Act. Manifestazioni e scioperi in tutta la Francia contro la legge El Khomri. Ecco cosa comporta la flessibilità del lavoro richiesta dall’UE.

 La Francia dice no alla flessibilità sul lavoro. Ecco cosa comporta il Jobs Act

Mentre in Italia tutto tace, in Francia è guerra aperta al Jobs Act transalpino che il governo sta cercando di imporre a tutti i costi. La flessibilità del mercato del lavoro resta una priorità per l’esecutivo francese che, per paura di non ottenere abbastanza consensi in parlamento, ha deciso di utilizzare l’articolo 49.3 della Costituzione per far passare la legge El Khomri.

Il fatto non sembra essere stato apprezzato dai lavoratori di tutta la Francia, soprattutto da quelli precari e già meno tutelati, che continuano a riversarsi nelle piazze di tutte le città transalpine per manifestare il loro dissenso.

Non sono mancati gli scontri tra manifestanti e polizia vista la presenza di frange più estreme di protesta anche se tuttavia buona parte delle manifestazioni si sono svolte in maniera pacifica. Quello che in Italia è stato accolto come un provvedimento volto ad aumentare (fittiziamente) l’occupazione, in Francia non riscuote lo stesso successo, ecco perché.

Francia: governo forza la mano per approvare il Jobs Act

Sono giorni di fuoco in Francia dopo che l’esecutivo transalpino ha deciso di ricorrere alla procedura d’emergenza dettata dall’articolo 49.3 della Costituzione. Tale articolo permette al governo di varare una legge senza l’approvazione del voto in aula.

L’articolo verrà utilizzato anche in Senato così da riuscire ad approvare la legge El Khomri, ossia il Jobs Act alla francese, entro questa estate (si prevede per fine luglio).

Francia paralizzata da scioperi e manifestazioni

La cosa non è andata giù ai lavoratori francesi che si stanno riversando nelle piazze di tutte le città transalpine in maniera più o meno pacifica. Si sono verificati scontri tra polizia e manifestanti data la presenza di frange estreme di protesta, anche se tutto sommato buona parte delle manifestazioni si è svolta in modo pacifico.

Per oggi e giovedì sono stati indetti altri scioperi che stanno complessivamente paralizzando il Paese dato che i maggiori oppositori al Jobs Act alla francese sono i principali sindacati, in particolare la Cgt che è equiparabile alla Cgil italiana.

Francia: i motivi del dissenso verso il Jobs Act

Il forte dissenso che si sta riscontrando in Francia ha alla base diversi motivi. Il primo è la riduzione dei pagamenti per gli straordinari di quasi tutte le categorie (in particolare gli autotrasportatori, tra i più agguerriti contro la legge El Khomri).

Il secondo è che se, come sembra, verrà introdotto il Jobs Act alla francese aumenterà la competitività, il che comporta una riduzione dei salari in generale.

Terzo punto, i lavoratori avranno meno diritti (le famose tutele crescenti), quindi pone il lavoratore in uno stato di incertezza del mantenimento del posto di lavoro il che dovrebbe indurre ad un aumento della produttività.

Ricapitolando, il Jobs Act non dà praticamente tutele ai lavoratori, abbassa i salari e aumenta la produttività (ergo si lavora di più ma si viene pagati di meno, chiedere agli autotrasportatori francesi).

Mentre in Italia il Jobs Act è stato visto come una sorta di salvezza (principalmente dal governo), in Francia non la si pensa così.

Eurozona: perché si vuole flessibilità nel mercato del lavoro?

Sommiamo poi le riforme al sistema pensionistico (in Italia ad esempio si è passati al contributivo sostenendo che “è meglio”), praticamente alle generazioni future si prospetta lavoro incerto, mal pagato, orari di lavoro sempre più pressanti per poi ritrovarsi a godere di una pensione che con ogni probabilità permetterà al futuro pensionato di vivere in stile studente universitario.

Non male questa flessibilità insomma. Flessibilità che si sta spargendo a macchia d’olio in tutta Europa, chissà perché, soprattutto in quei Paesi che hanno bisogno di riforme strutturali più di tutti: Spagna, Grecia, Portogallo, Francia, Italia e Grecia.

Strutturalmente l’Europa ha sempre sofferto di livelli di disoccupazione più elevati rispetto ai Paesi anglosassoni. Disoccupazione che ha subito accelerate nelle fasi recessive dell’economia mentre non è migliorata poi di molto nelle fasi di espansione. Il problema va ricercato proprio nella scarsa flessibilità del mercato del lavoro e nell basso intercambio di lavoratori tra i vari Paesi europei.

Si sta cercando di risolvere il problema solo adesso, dopo l’introduzione della moneta unica che avrebbe dovuto risolvere tutti i mali europei. Il cambio fisso li ha invece amplificati e adesso si cerca di porre rimedio con riforme che necessitano anni e magari anche di una situazione economica migliore.

Eurozona: riforme strutturali servono ad abbattere i diritti dei lavoratori

Le riforme strutturali tanto richieste da Schauble, Merkel e Draghi (Krugman spiega il motivo di tali richieste) corrispondono alla morte delle future classi lavoratrici.

Chi ha vecchi contratti rimarrà fuori dalle rifome del mercato lavorativo mentre le generazioni odierne e future si troveranno a saltare da un contratto all’altro senza avere poi una pensione decente alla fine del percorso lavorativo.

È difficile replicare il modello inglese in quanto da sempre molto flessibile e molto aperto all’afflusso di lavoratori anche se Boris Johnson, sulle colonne del Telegraph, ha avvertito dei pericoli insiti nell’eccessiva immigrazione.

Europa: l’Euro alla base dei problemi

La cosa più interessante è osservare banchieri centrali e politici vari chiedersi e dibattere sul come mai i consumi interni dei vari membri dell’Eurozona non aumentino.

Evidentemente non si sono accorti che tagliare i salari (leggesi unico modo di competere con lo strapotere tedesco in presenza di cambio fisso) non è una buona idea per stimolare i consumi.

Una buona idea sarebbe abbandonare il cambio fisso (quindi l’Euro) oppure (o anche magari) stimolare gli investimenti e diminuire la pressione fiscale alle imprese. Questa, però, è un’altra storia.

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