Mercoledì 27 Novembre è stato varato il decreto legge che prevede la trasformazione della Banca D’Italia in public company. Ecco i dettagli dell’operazione.
La giornata di mercoledì 27 Novembre verrà ricordata per la decadenza al Senato di Silvio Berlusconi. Passerà purtroppo in sordina per un evento di pari, se non superiore, importanza. La riforma di Bankitalia. Il Governo italiano ha infatti varato mercoledì il decreto legge che prevede la trasformazione della banca centrale italiana in una public company.
Le ragioni della riforma le possiamo trovare nelle parole di un documento pubblicato da Palazzo Koch
L’assetto azionario della Banca va però rivisto, per almeno tre ragioni. In primo luogo, i processi di concentrazione avvenuti negli ultimi anni hanno accresciuto la percentuale del capitale della Banca detenuta dai gruppi bancari di maggiori dimensioni. Ciò non ha creato problemi di sostanza, grazie alle norme che limitano i diritti dei partecipanti, ma è necessario evitare la possibile (erronea) percezione che la Banca possa essere influenzata dai suoi maggiori azionisti.
Preservare l’indipendenza di Bankitalia
La ragione principale della riforma risiederebbe dunque nell’eccessiva concentrazione del capitale azionario della Banca D’Italia (attualmente Intesa San Paolo e Unicredit detengono la prima il 30,3% del capitale azionario, la seconda il 22,3%). Tramite la trasformazione in public company viene consentita una maggiore apertura dell’assetto proprietario. La public company è caratterizzata infatti da una struttura del capitale azionario particolarmente “polverizzata”, in cui nessun azionista ha azioni sufficienti per governare l’impresa.
Vi è inoltre da parte di Palazzo Koch la precisa volontà di mantenere un modello di governance proprietaria privata, svincolandosi il più possibile dallo Stato italiano. La legge n. 262 del 2005 (peraltro mai attuata) prevede un possibile trasferimento allo Stato dei capitali della Banca. Questa legge rompe quell’equilibrio tra Stato e autorità monetaria caratterizzato da una sancita indipendenza. Con la riforma l’indipendenza viene nuovamente affermata.
I dettagli dell’operazione
Come assicurare una maggiore frammentazione del capitale azionario della Banca D’Italia? Come afferma il già citato documento
Il modo più ovvio per ridurre la concentrazione dei partecipanti al capitale della Banca consiste nell’introduzione di un limite massimo alla percentuale di quote detenibili da ciascun soggetto, ampliando al tempo stesso la base azionaria.
Il limite massimo, come ha spiegato il numero uno di Bankitalia Saccomanni, è stato definito pari al 5% del capitale azionario. Il che lascia aperta la porta ad investitori istituzionali esteri. Non solo, per attrarre gli investitori è necessario aumentare il valore del capitale sociale della Banca. Attualmente il valore del capitale della Banca D’Italia è pari alla cifra simbolica di 156 000 €.
Tuttavia nel corso degli anni sono state accumulate riserve aggiuntive pari a 23 miliardi di euro, che possono essere trasferite (e di fatto lo sono) a capitale. Sono state inoltre rivalutate le quote di capitale della Banca per un valore complessivo di circa 7,5 miliardi di Euro. Questo valore è stato ottenuto stimando il valore attuale netto del flusso di dividendi futuri che saranno percepiti dai partecipanti, applicando un tasso di dividendo del 6%.
Il problema della distribuzione degli utili
Il bilancio della Banca D’Italia del 2012 evidenzia un patrimonio netto pari a circa 23 miliardi di euro. Secondo il documento di palazzo Koch gli utili di Bankitalia non distribuiti provengono dal signoraggio, dunque non possono essere trasferiti ai soci, bensì allo Stato italiano. Questa prassi verrà mantenuta, fortunatamente, anche nel nuovo assetto societario. Si può pensare allora che gli utili "non da signoraggio" corrispondano ai 7,5 miliardi di euro stabiliti mercoledì 27. Come fa notare Fulvio Coltorti
Questi 7,5 miliardi risultano impiegati come parte di un complesso di attivi finanziari che Bankitalia contabilizza nel suo bilancio per complessivi 38,5 miliardi. Si tratta di titoli di Stato (quasi otto decimi del totale), azioni, Etf e altri fondi. Un rendimento del 6% è assai ardito e, data la preponderanza dei titoli di stato, sarebbe difficile da conseguire; si giustificherebbe solo con impieghi ad alto rischio. E’ quindi assai probabile che il rendimento sarà inferiore oppure che quel 6% finisca per essere cavato dallo stesso signoraggio che si è voluto escludere dalla valutazione.
Non solo, ma alcuni commentatori hanno fatto notare il problema della mancata trasmissione allo Stato degli utili di Bankitalia derivanti, ad esempio, dall’acquisto di titoli (di stato e non) o obbligazioni in fasi di stress dell’economia. Prendendo ad esempio la Fed, i profitti ottenuti dalla banca centrale americana con l’acquisto di titoli sul mercato secondario vengono tutti devoluti al Tesoro americano. Con la nuova forma societaria a chi verranno distribuiti gli utili non da signoraggio? Agli azionisti privati?
L’urgenza della riforma
Come ha fatto notare lo stesso Coltorti, il decreto legge è uno strumento che la Costituzione italiana prevede in casi straordinari di necessità e d’urgenza. Non sembra allora che questo sia un caso di necessità e urgenza, considerando anche che è stata smentito in sede ufficiale un presunto collegamento diretto con l’esigenza di trovare una copertura per l’abolizione della seconda rata dell’IMU.
Vi è forse (e sottolineiamo, forse) un’urgenza che non verrebbe comunque giustificata dalla formulazione di un decreto legge, ossia fornire le banche azioniste di un solido rinforzo patrimoniale, utile ai fini dell’Asset Quality Review che la BCE effettuerà l’anno prossimo.
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