La storia del “legal fake” più famoso della moda streetwear: ecco come un’azienda di Barletta riuscì a registrare e vendere prodotti a marchio Supreme in Italia prima del brand originale.
Nel mondo della moda esiste un fenomeno che non tutti conoscono, ma che è più diffuso di quanto si possa immaginare: il cosiddetto “legal fake”. Non si tratta di semplice contraffazione, ma di un sistema più sofisticato e, almeno inizialmente, perfettamente legale grazie al quale un’azienda riesce a registrare un marchio in un determinato Paese prima che lo faccia il brand originale, producendo poi articoli identici agli originali.
Il caso più clamoroso degli ultimi anni riguarda Supreme, l’iconico marchio di streetwear newyorkese, e la sua versione italiana nata a Barletta, in Puglia.
La vicenda comincia nel 2015, quando Michele Di Pierro e il figlio Marcello decidono di sfruttare un vuoto normativo. Supreme New York, fondato nel 1994 e diventato un cult dello skateboarding mondiale, vendeva i suoi prodotti in edizione limitatissima solo in pochi negozi selezionati tra New York, Los Angeles, Londra, Parigi e Tokyo.
In Italia il marchio non era ancora stato registrato. Così, attraverso la società International Brand Firm (IBF) con sede a Londra e la Trade Direct di Barletta, i Di Pierro depositarono il marchio Supreme Italia con lievi modifiche grafiche rispetto all’originale, anticipando di appena un mese la richiesta di registrazione da parte di Chapter 4, la società proprietaria del marchio americano.
Ecco cosa è successo dopo.
L’esplosione di Supreme in Italia
Il 14 gennaio 2016 Supreme Italia fece il suo debutto ufficiale a Pitti Uomo, a Firenze, dove i rappresentanti della Trade Direct cercarono nuovi rivenditori. Le magliette con il celebre box logo rosso, leggermente più grande dell’originale, invasero i negozi italiani a prezzi decisamente più accessibili rispetto agli originali. Molti negozianti, ma anche tantissimi clienti, non si accorsero subito della differenza. I prodotti andarono rapidamente sold out, creando una situazione paradossale: in Italia, Supreme “Barletta” stava diventando più popolare dell’originale.
Il fenomeno non tardò ad attirare l’attenzione internazionale. Le testate specializzate in streetwear come Hypebeast e Highsnobiety iniziarono a parlarne, i gruppi Facebook di appassionati si riempirono di foto con la domanda se i capi fossero “legit” (autentici). L’espressione “Supreme Barletta” divenne così un vero e proprio tormentone nel settore. Ma ciò che per molti era uno scherzo, per i Di Pierro era un business in rapida espansione: nacque anche Supreme Spain, con negozi a Madrid, Barcellona, Ibiza e si pianificò l’ingresso nel mercato asiatico, dove il marchio venne registrato attraverso la WIPO (World Intellectual Property Organization).
La battaglia legale contro Supreme “Barletta”
Supreme New York, ovviamente, non restò a guardare. Nel 2016 Chapter 4 citò in giudizio IBF e Trade Direct, dando il via a una complessa battaglia legale durata cinque anni e combattuta su più fronti internazionali. Inizialmente il Tribunale di Milano, nell’aprile 2017, accertò la concorrenza parassitaria delle aziende italiane, ordinando la cessazione della produzione e il sequestro di 120.000 capi a San Marino. Tuttavia, nel 2018 l’EUIPO (Ufficio dell’Unione Europea per la Proprietà Intellettuale) respinse la richiesta di registrazione del marchio Supreme da parte di Chapter 4, ritenendo la parola troppo descrittiva. In Spagna, alcuni tribunali diedero ragione a Supreme Spain.
Il colpo di scena arrivò nel dicembre 2018, quando Samsung Cina annunciò una collaborazione con Supreme Italia, scatenando un polverone globale. Supreme New York rilasciò un comunicato definendo l’operazione opera di una “counterfeit organization”, e IBF replicò rivendicando la legittimità della propria posizione e minacciando azioni legali per diffamazione. Nel comunicato, l’azienda pugliese si presentò persino con “etico” volto a “rendere disponibile il prodotto a tutti”, in contrapposizione alla strategia di esclusività di Supreme New York.
Ma la svolta definitiva arrivò nel luglio 2021, quando un giudice britannico mise fine alla storia definendo le attività dei Di Pierro come l’operazione di contraffazione “più sfacciata, offensiva e disonesta” che avesse mai visto. Michele Di Pierro venne condannato a otto anni di carcere, il figlio Marcello a tre, con una multa complessiva di 8,7 milioni di dollari.
Michele si è sempre dichiarato innocente, sostenendo di “portare avanti un progetto completamente diverso da Supreme New York” e che il marchio originale non fosse conosciuto in Italia.
Nel 2021 Supreme New York ha finalmente aperto il suo primo negozio ufficiale a Milano, mentre la parabola di Supreme Barletta si è conclusa nelle aule di tribunale.
© RIPRODUZIONE RISERVATA