Quali conseguenze per il dipendente che denuncia di lavorare in nero?

Claudio Garau

07/09/2022

La prassi di lavorare in nero è oggi molto diffusa, ma il dipendente assunto in modo irregolare può tutelarsi grazie ai rimedi che la legge gli assegna. Ecco quali sono.

Quali conseguenze per il dipendente che denuncia di lavorare in nero?

Il lavoro nero rappresenta in Italia una vera e propria piaga. Dati alla mano, sono infatti più di tre milioni coloro i quali svolgono un’occupazione in modo irregolare. Dunque sono moltissimi i datori di lavoro che utilizzano lavoratori subordinati senza aver mai reso nota l’assunzione agli enti competenti - con tutte le conseguenze che ne possono derivare sul piano retributivo, contributivo e fiscale.

In questi casi a essere danneggiato dal comportamento dell’azienda, che non adempie agli obblighi di comunicazione nei confronti del Centro per l’Impiego, dell’Inps e dell’Inail, è anche e soprattutto il lavoratore assunto irregolarmente. Tuttavia, come vedremo più avanti, la legge fornisce adeguati strumenti di tutela a chi è stato costretto a lavorare in nero.

Vero è che oggigiorno non sono pochi coloro che, pur di trovare un lavoro e ricevere un compenso utile a sostenere le spese quotidiane, sono disposti ad adeguarsi anche a condizioni irregolari e a patti con il datore che non hanno nulla di conforme alla legge. Ma è altrettanto vero che dire sì a un rapporto di questo tipo non significa poi non aver diritto di rivolgersi alle autorità in un secondo tempo, onde ottenere finalmente il rispetto dei propri diritti di lavoratore.

Si tratta insomma di argomenti tanto delicati, quanto importanti e diffusi nella prassi dei rapporti di lavoro. Ecco perché di seguito intendiamo rispondere alle seguenti domande: come fare e quali azioni intraprendere per denunciare di lavorare in nero? A quali uffici e servizi fare riferimento? Quali sono dunque le conseguenze della denuncia e come può, di fatto, il lavoratore uscire dal tunnel del cosiddetto “sommerso”? Scopriamolo insieme, nel corso di questo articolo.

Lavorare in nero: il contesto di riferimento e quando l’occupazione è irregolare

Come sottolineato anche dall’Ufficio studi Cgia di Mestre, la crisi pandemica ha rappresentato un potente catalizzatore per l’occupazione irregolare, perché se da un lato sono cresciuti i lavoratori in cassa integrazione, dall’altro sono aumentati anche coloro che hanno accettato di lavorare in nero. E ciò in particolare nelle aree italiane più fragili e arretrate a livello economico, come molte zone del Mezzogiorno.

Lo abbiamo accennato in apertura, lavorare in nero significa svolgere mansioni e prestazioni professionali per un datore di lavoro:

  • con cui non è stato firmato un regolare contratto (scritto) di lavoro;
  • che non ha comunicato l’assunzione tramite il modello Unilav.

Quest’ultimo punto è molto importante e la legge è chiara in proposito. Le regole vigenti (dl n. 510 del 1996) infatti indicano che entro le 24 ore anteriori al momento nel quale il neoassunto deve cominciare a svolgere le sue mansioni, il datore di lavoro è obbligato a comunicare, in via telematica - e con il modello specifico (Unilav) - l’assunzione del dipendente.

Ciò consentirà di informare Centro per l’impiego competente, Inps e Inail. Tuttavia, le norme ammettono il caso in cui l’emergenza e la forza maggiore impediscano di fatto la pronta comunicazione. In queste circostanze, il datore può rimandarla e far lavorare subito il nuovo dipendente, ma la segnalazione agli enti competenti dovrà essere fatta quanto prima.

Come riconoscere il lavoro nero? Ecco 4 elementi chiave

Insomma lavorare in nero non è ammesso in alcuna norma di legge ed infatti è lo stesso Ccnl di categoria ad affermare il divieto di utilizzo del dipendente oltre i limiti fissati dalla legge. Ben si comprende allora che il lavoratore possa tutelarsi e far valere i propri diritti, richiedendo i contributi, le ferie, le differenze non versate sullo stipendio, il rispetto dei minimi salariali e potendo anche far annullare il licenziamento verbale - se è stato disposto dall’azienda.

Ma come riconoscere in modo inequivocabile che un datore di lavoro ha deciso di far lavorare in nero uno o più persone? Ebbene, la risposta è molto semplice: il contratto di lavoro, in questi casi, è meramente verbale, ovvero è un accordo orale che si basa sullo scambio di consensi a voce di datore e lavoratore. L’interessato può agevolmente rendersi conto di lavorare in nero perché:

  • non firma alcun documento scritto;
  • non consegue la busta paga mensile;
  • non ottiene la Certificazione Unica (Cu) a fine anno.

Ma attenzione: il lavoratore può fare una verifica dell’estratto conto Inps personale, molto utile a capire se l’assunzione è stata fatta conformemente alla regole di legge, oppure se è stata effettuata per lavorare in nero. In particolare, se trascorsi due mesi dall’avvio dell’esperienza di lavoro, non emergono contributi previdenziali accreditati per il rapporto di lavoro in oggetto, la probabilità che l’assunzione non sia mai stata comunicata agli enti competenti, è molto alta.

Come tutelarsi contro il lavoro nero? La conciliazione presso l’Ispettorato del lavoro

Abbiamo detto che tutela per il lavoratore è certamente possibile, ma propriamente non si tratta di una denuncia penale per il fatto di lavorare in nero. Il cosiddetto “sommerso” rappresenta infatti un illecito amministrativo e non penale: in sintesi non si tratta di reato, ma di una violazione delle norme di legge con minor indice di pericolosità rispetto a un reato. Così il legislatore ha qualificato il lavoro nero, pur prevedendo una maxi sanzione per colui che assume a queste condizioni. Si tratta della temuta sanzione amministrativa pecuniaria che può superare anche i 40mila euro per ogni lavoratore irregolare - e che può anche includere maggiorazioni del 20% (ad es. in caso di utilizzo di percettori di reddito di cittadinanza).

La denuncia del lavoro in nero è dunque piuttosto una segnalazione delle autorità con funzioni ispettive, che di seguito potranno verificare se davvero si è di fronte a un lavoro non regolarizzato. In questi casi, le autorità potranno ordinare al datore sia la regolarizzazione del contratto di lavoro, sia il pagamento di tutti i contributi maturati fino a quel momento, da colui che ha dovuto lavorare in nero.

In particolare, la tutela del dipendente può essere ottenuta rivolgendosi all’Ispettorato territoriale del lavoro, per servirsi della procedura di conciliazione monocratica. Perciò:

  • il dipendente potrà recarsi autonomamente negli uffici dell’Ispettorato e fare richiesta di compilazione del modulo per la denuncia di lavoro nero. Non servirà il supporto di un legale;
  • la segnalazione consentirà un incontro tra le parti al fine di incentivare il datore alla regolarizzazione del contratto di lavoro, evitando conseguentemente le sanzioni che altrimenti l’ufficio potrebbe infliggergli;
  • ricevuta la segnalazione da parte del dipendente, l’Ispettorato del lavoro darà luogo alla convocazione del datore e del dipendente per verificare se tra i due è possibile conseguire un’intesa.

Proprio l’ultimo punto appena indicato è molto interessante, come ora vedremo più nel dettaglio.

L’accordo delle parti presso l’Ispettorato è titolo esecutivo: le conseguenze per il lavoratore

Ebbene sì: l’eventuale verbale positivo da questi firmato al termine dell’incontro rappresenta “titolo esecutivo”. In termini più semplici, ha lo stesso valore di una sentenza definitiva e incontestabile del giudice.

Ecco perché se il datore di lavoro non si adeguasse all’impegno di cui all’accordo, il lavoratore che è stato costretto a lavorare in nero potrà agire tramite pignoramento dei beni, senza dover prima intraprendere una causa in tribunale. Infatti la presenza del titolo esecutivo è per legge presupposto del pignoramento stesso.

Il datore di lavoro è allora chiaramente incentivato a rispettare l’accordo ottenuto in sede di conciliazione, perché se così non fosse scatterebbero i controlli e soprattutto le sanzioni amministrative pecuniarie, che in materia di lavoro nero sono molto pesanti. Sul piano sanzionatorio, il lavoratore rischia invece molto meno: infatti questi non potrebbe essere denunciato, tranne il caso in cui incassi allo stesso tempo anche sussidi di disoccupazione come la Naspi o il RdC.

La tutela contro il lavoro nero tramite ricorso al giudice

Il secondo metodo per tutelarsi nei casi in cui si è stati costretti a lavorare in nero è rappresentato dal ricorso in tribunale, attraverso il proprio avvocato. Rispetto al precedente meccanismo, in questo caso il percorso sarà un po’ meno snello ed economico, e soprattutto sarà caratterizzato dai seguenti punti:

  • l’avvocato di fiducia depositerà un ricorso in tribunale al fine di domandare la regolarizzazione del contratto, e dunque il versamento delle differenze retributive rispetto ai minimi salariali di cui al Ccnl di riferimento. Non solo. Il legale si attiverà anche per favorire la liquidazione delle ferie non godute e il versamento di tutti i contributi all’istituto di previdenza;
  • il lavoratore da parte sua dovrà dimostrare il rapporto di lavoro in essere, anche con testimonianze di coloro che lo abbiano visto lavorare in nero per conto del datore di lavoro.

Ricordiamo infine che, sul piano del tempo a disposizione per denunciare di lavorare in nero, la legge è molto favorevole al lavoratore. Infatti la segnalazione può essere fatta fino a cinque anni dalla cessazione del rapporto di lavoro non regolarizzato.

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