Distaccamento dall’elettorato e autoreferenzialità, ecco perché il Pd ha perso le elezioni politiche

Vincenzo Caccioppoli

27 Settembre 2022 - 10:23

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Allontanamento dal proprio elettorato, distaccamento dai problemi concreti, autoreferenzialità. Tutti gli errori del Pd durante la campagna elettorale e prima.

Distaccamento dall’elettorato e autoreferenzialità, ecco perché il Pd ha perso le elezioni politiche

Se Giorgia Meloni può festeggiare un risultato che, anche se ampiamente previsto, si è confermato nei fatti in maniera chiara netta e indiscutibile, il Pd di Enrico Letta esce sconfitto da una competizione elettorale in cui mai avrebbe voluto entrare e da cui sembra abbia cercato di uscire prima che iniziasse la battaglia.

Il Pd ha perso anche perché, da troppi anni, sembra aver smarrito sia una linea politica chiara, sia un’autorevole leadership, sia il desiderio stesso di vittoria. Da troppo tempo copia sbiadita del vecchio partito comunista, il Pd sembra aver trovato la sua essenza sotto l’ombra del potere e dei palazzi governativi, che presidia quasi ininterrottamente da dieci anni.

Sebbene i dirigenti del partito da tempo fingano di attaccare una legge elettorale assurda, promossa dall’allora segretario del partito Matteo Renzi e votata in massa da deputati e senatori del partito, hanno tratto vantaggio dalla suddetta legge e dall’ingovernabilità perenne che causa a chiunque dovesse vincere le elezioni.

Questa volta però i calcoli della “ditta” non hanno fatto i conti con la terribile voglia di vittoria di Giorgia Meloni, che è riuscita a ottenere una maggioranza assai larga che le permetterà di smontare qualsiasi piano di accordi di palazzo. Anche le accuse rivolte a Enrico Letta di non aver voluto l’alleanza con il M5S era rivolta, da parte dei grandi vecchi del partito, non a offrire una opportunità di vittoria al proprio campo, ma solo a cercare l’ennesima via per non permettere la formazione di un governo. Il Pd ha perso certo perché ha commesso moltissimi errori di valutazione, ma anche perché ormai si è adagiato e adattato a una pessima legge elettorale, che gli permette comunque, grazie alle sue ampie intese e alla bravura nel preparare accordi trasversali di potere, di arrivare al governo.

Il Pd in questi anni è diventato nella mente degli elettori il partito istituzionale, di governo e dello status quo. Un partito ormai troppo imborghesito, che non a caso ottiene sempre più voti nei centri storici delle grandi città, e non dalla classe operaia o di quella classe media, a cui il Pd dovrebbe guardare come sua storica base elettorale.

Una contraddizione interna di cui Matteo Salvini prima, e Giorgia Meloni adesso, hanno saputo appunto approfittare per allargare il loro consenso in maniera larga e condivisa. Il Pd deve trovare una nuova strada per uscire da quella autoreferenzialità a cui sta sacrificando la sua stessa essenza e ragione di essere.

Da troppo tempo, e in questa occasione in maniera addirittura scomposta e smodata, il partito cerca all’estero sponde e spunti o appigli a cui appoggiarsi per contrastare gli avversari, senza riuscire a costruire un progetto interno su cui basare la propria offerta politica. Rischio democratico, alleanze scomode, europeismo, atlantismo, parole importanti certo, ma su cui non si può costruire un progetto politico unico, soprattutto con un’avversaria come Giorgia Meloni, che delle coerenza e delle idee ha fatto la sua principale forza.

Gli appelli del Pd sono risultati quindi vani e, in alcuni casi, distonici di fronte ai gravi problemi a cui devono far fronte famiglie e imprese. Forse ora che il governo appare dopo anni una chimera, un bagno di umiltà e un tuffo nei problemi concreti potrebbe finalmente produrre qualche cambiamento in un partito che potrebbe, però, rischiare anche l’ennesima scissione.

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