Dalla perdita di autorevolezza internazionale all’incompetenza mascherata da rinnovamento: l’Italia paga oggi il prezzo di una politica che ha scambiato il mestiere per improvvisazione.
I dazi americani, l’irrilevanza nei grandi tavoli globali, il nostro essere sempre più periferia e mai centro, sono figli di una lunga deriva. Gli Stati Uniti non mettono dazi all’Italia perché ci odiano. Li mettono perché siamo fragili, incoerenti, senza una linea chiara. Perché non sanno con chi stanno parlando, né se la nostra parola vale qualcosa. Perché sanno che la UE, oggi, è un pollaio senza gallo, e l’Italia una gallina stanca che cova solo lamentele.
C’è infatti un filo invisibile che unisce il crollo della Prima Repubblica alla valanga di dazi, isolazionismi e smarrimenti geopolitici che stiamo vivendo oggi. Un filo fatto di incompetenza mascherata da rinnovamento, di slogan spacciati per visione, di leader improvvisati che hanno confuso la distruzione della politica con la sua rigenerazione.
Fino al 1992, l’Italia era un Paese con difetti enormi, certo, ma anche con una classe dirigente che conosceva il mondo. Andreotti, Craxi, Forlani, La Malfa, Colombo… si poteva anche non condividerne le idee, ma non si poteva negar loro la statura. Quei politici parlavano con Kissinger, sedevano nei vertici europei, conoscevano le logiche della diplomazia internazionale e difendevano l’interesse nazionale nei consessi che contano. [...]
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