Onere probatorio: come provare un diritto in giudizio

Marco Montanari

21/03/2022

Per provare l’esistenza di un diritto in giudizio è necessario assolvere l’onere probatorio: ecco cosa significa e come fare secondo la legge.

Onere probatorio: come provare un diritto in giudizio

Quando si avvia un procedimento civile per tutelare o rivendicare un diritto, una necessità fondamentale è quella di assolvere l’onere della prova.

Ciò significa che, per provare l’esistenza di un diritto, colui che agisce è tenuto a dimostrare, tramite i mezzi appositamente previsti dalla legge, le circostanze di fatto su cui si fonda la propria domanda.

A stabilirlo è il comma 1 dell’art. 2967 del Codice civile, che così recita:

Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.”

La stessa regola vale anche nel senso opposto. Infatti, chi vuole smentire l’esistenza del diritto, difendendosi dalla pretesa avversaria, dovrà farlo assolvendo il medesimo onere.

È quanto si ricava dal comma 2 dello stesso articolo, secondo cui:

Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda.”

In buona sostanza, entrambe le parti del giudizio sono tenute ad assolvere il rispettivo onere probatorio.

A tal fine, la legge mette alcuni strumenti a loro disposizione: si tratta dei cosiddetti mezzi di prova.

Nell’articolo che segue vedremo, in breve, come operano tali strumenti all’interno del processo civile.

Il principio dispositivo

Nel processo civile vige il cosiddetto principio dispositivo: in base ad esso, grava sulla parte interessata l’onere di provare i fatti posti a fondamento della propria domanda.

Per basare la sua decisione il giudice potrà tenere conto soltanto delle prove proposte dalle parti, essendogli preclusa (tranne in alcuni casi tassativi) la possibilità di acquisire d’ufficio, ovvero di sua spontanea iniziativa, altre prove.

Un’eccezione a tale regola è rappresentata dalla possibilità di fondare la decisione sulle nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza, ossia sui fatti notori: si tratta di quelle circostanze di fatto che non hanno bisogno di specifica prova poiché comunemente riconosciute dalla collettività (ad es., il fatto che ci sia stato un terremoto in un determinato luogo e tempo).

Questi (e altri) principi di desumono dall’art. 115, c.p.c. (“Disponibilità delle prove”), secondo cui:

Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita.
Il giudice può tuttavia, senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza
.”

I mezzi di prova

Come detto, l’art. 2967, c.c. prevede la regola generale secondo cui, per ottenere il riconoscimento di un diritto in giudizio, l’interessato deve dimostrare i fatti posti a fondamento della domanda.

Si parla, al riguardo di “onere probatorio”, che può essere assolto attraverso i mezzi di prova appositamente previsti dal Codice di procedura civile.

A tal proposito, è possibile distinguere tra:

  • prova documentale;
  • prova testimoniale;
  • interrogatorio formale;
  • interrogatorio libero;
  • confessione;
  • giuramento;
  • ispezione.

Discorso a parte va fatto per la consulenza tecnica d’ufficio (C.T.U.): essa rappresenta uno strumento di ausilio al giudice finalizzato ad accertare e a valutare i fatti sottoposti al suo giudizio da un punto di vista tecnico (si pensi all’accertamento medico dei danni da lesione fisica conseguenti a un sinistro stradale).

La prova documentale

All’interno del processo civile la prova documentale è probabilmente il mezzo di prova più utilizzato.

Essa è definita anche “prova precostituita” in quanto si forma prima ed esternamente al processo, dove viene prodotta solo in seguito su iniziativa della parte interessata.

Le principali prove documentali sono l’atto pubblico e la scrittura privata.

L’atto pubblico è definito dal Codice civile come “il documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l’atto è formato” (art. 2699, c.c.); esso è la prova documentale per eccellenza, in quanto il suo contenuto si presume vero e, quindi, “fa fede” fino a querela di falso (art. 2700, c.c.).

Ciò significa che il contenuto dell’atto pubblico (come un rogito notarile o un verbale di accertamento), per essere efficacemente contestato dalla parte contro cui è prodotto necessita di uno speciale procedimento denominato “querela di falso”.

La scrittura privata è, invece, qualsiasi altro documento sottoscritto dalla parte contro cui è prodotto: si pensi a un contratto o a una dichiarazione di riconoscimento del debito.

Questo tipo di documento fa piena prova nel processo civile fino a querela di falso anche se non formato da un pubblico ufficiale.

In particolare, a mente dell’art. 2702, c.c.:

La scrittura privata fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni da chi l’ha sottoscritta, se colui contro il quale la scrittura è prodotta ne riconosce la sottoscrizione, ovvero se questa è legalmente considerata come riconosciuta.”

Quindi, in questo caso, la piena prova riguarda la provenienza delle dichiarazioni contenute nella scrittura, purché la persona contro cui è prodotta non disconosca la propria sottoscrizione.

Negli articoli 2705 e seguenti il Codice civile prevede, infine, altre tipologie di prove documentali. Esse sono:

  • il telegramma;
  • le carte e i registri domestici;
  • le annotazioni in calce, in margine o a tergo di un documento;
  • i libri e le altre scritture contabili delle imprese soggette a registrazione;
  • le riproduzioni meccaniche;
  • le taglie o tacche di contrassegno;
  • le copie degli atti;
  • gli atti di ricognizione o di rinnovazione.

La prova testimoniale

Un altro importante mezzo di prova, spesso utilizzato nel processo civile, è la prova testimoniale.

È un mezzo di prova orale e “costituenda”, in quanto si forma all’interno del processo, davanti al giudice e in contraddittorio tra le parti.

Con la testimonianza la parte interessata può dimostrare l’esistenza di un fatto attraverso l’esame dei testimoni, ai quali, in un’apposita udienza, vengono poste domande formulate in capitoli riguardanti i fatti di causa:

La prova per testimoni deve essere dedotta mediante indicazione specifica delle persone da interrogare e dei fatti, formulati in articoli separati, sui quali ciascuna di esse deve essere interrogata.”

(art. 244, c.p.c.).

Il giudice dovrà valutare, di volta in volta, se la prova per testimoni richiesta dalla parte interessata è ammissibile e rilevante ai fini del giudizio (art. 245, c.p.c.).

Esistono diversi limiti all’uso di questo mezzo di prova, fra i più importanti vi è il divieto di testimoniare da parte di coloro che potrebbero avere un interesse nella causa e che, per tale motivo, sarebbero legittimate a partecipare al giudizio.

È quanto si ricava dall’art. 246, c.p.c., secondo cui:

Non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio.”

Si pensi, ad esempio, alla possibilità per un condomino di testimoniare in una causa avviata contro il proprio condominio.

In un caso simile, la Cassazione ha escluso l’ammissibilità della testimonianza poiché gli effetti della sentenza avrebbero interessato direttamente il condomino in questione. In particolare, a mente della Suprema Corte:

I singoli condòmini sono privi di capacità a testimoniare nelle cause che coinvolgono il condominio (nella specie, per il risarcimento dei danni derivanti da una caduta sul pianerottolo condominiale) poiché l’eventuale sentenza di condanna è immediatamente azionabile nei confronti di ciascuno di essi.

(Cass. civ. n. 17199/2015).

L’interrogatorio formale

Attraverso questo mezzo di prova è possibile rivolgere domande direttamente a una delle parti del processo su fatti a questa sfavorevoli.

Lo scopo principale cui mira l’interrogatorio formale è quello di ottenere la confessione giudiziale della controparte, istituto che si vedrà meglio più avanti.

Per quanto riguarda le modalità di esecuzione, anche l’interrogatorio formale deve essere formulato in capitoli di prova specifici e separati.

La parte potrà essere interrogata solo sulle circostanze indicate nei capitoli o, eventualmente, su altre circostanze previamente concordate e ritenute utili dal giudice (art. 230, c.p.c.).

La parte interrogata deve rispondere personalmente, senza servirsi di documenti scritti, salvo che il giudice la autorizzi a utilizzare note o appunti quando occorre fare riferimento a nomi o a cifre o quando particolari circostanze lo consigliano (art. 231, c.p.c.).

La mancata risposta alle domande formulate o l’assenza della parte all’udienza appositamente fissata, senza giustificato motivo, comportano per il giudice la possibilità di considerare come ammessi i fatti oggetto dell’interrogatorio (art. 232, c.p.c.).

L’interrogatorio libero

A differenza di quello formale, l’interrogatorio libero non è diretto a provocare la confessione giudiziale.

Esso è previsto dall’art. 117, c.p.c., che così recita:

Il giudice, in qualunque stato e grado del processo, ha facoltà di ordinare la comparizione personale delle parti in contraddittorio tra loro per interrogarle liberamente sui fatti della causa. Le parti possono farsi assistere dai difensori.”

In questo caso, non si può parlare di un vero e proprio mezzo di prova, in quanto le dichiarazioni rese dalle parti in sede di interrogatorio non hanno, di per sé, efficacia di piena prova.

Tuttavia, tali dichiarazioni consentono al giudice di desumere argomenti di prova (art. 116, c.p.c.).

Ciò significa che le circostanze emerse in sede di interrogatorio avranno valenza di meri indizi, che il giudice dovrà valutare insieme agli altri elementi del processo in modo da formare il proprio convincimento: ecco perché tale istituto è considerato un mezzo di prova “affievolito”.

La confessione

Un altro modo per provare, in modo decisivo, un fatto nel processo è quello di ottenere la confessione della controparte, ovvero l’ammissione di circostanze ad essa sfavorevoli.

È possibile distinguere tra confessione stragiudiziale e confessione giudiziale.

La prima è quella che si forma al di fuori del processo come, ad esempio, una dichiarazione sottoscritta dalla parte nella quale riconosce espressamente l’esistenza di un fatto a sé sfavorevole.

La confessione giudiziale, invece, è quella che si ottiene all’interno del processo.

In particolare, essa si distingue in (art. 228, c.p.c.):

  • confessione provocata;
  • confessione spontanea.

Come anticipato poco sopra, la confessione provocata è quella che scaturisce dall’interrogatorio formale: se, in sede di interrogatorio, la parte conferma l’esistenza dei fatti oggetto dei capitoli di prova, questi si intenderanno come ammessi.

La confessione spontanea, invece, può essere contenuta in qualsiasi atto processuale firmato dalla parte personalmente, oppure può consistere in una dichiarazione fatta nel corso dell’interrogatorio libero (art. 229, c.p.c.); in quest’ultimo caso, tuttavia, essa non deve essere provocata da una domanda del giudice e il relativo verbale d’udienza deve risultare firmato dalla parte personalmente.

Il giuramento

Esistono due tipi di giuramento:

  • il giuramento decisorio;
  • il giuramento suppletorio.

Entrambe le tipologie sono previste dall’art. 2736 del Codice civile, secondo cui:

l giuramento è di due specie:
1) è decisorio quello che una parte deferisce all’altra per farne dipendere la decisione totale o parziale della causa;
2) è suppletorio quello che è deferito d’ufficio dal giudice a una delle parti al fine di decidere la causa quando la domanda o le eccezioni non sono pienamente provate, ma non sono del tutto sfornite di prova, ovvero quello che è deferito al fine di stabilire il valore della cosa domandata, se non si può accertarlo altrimenti
.”

In buona sostanza, con il giuramento decisorio una parte del processo invita l’altra a giurare sull’esistenza o meno di alcuni fatti di importanza decisiva ai fini della causa.

In questo modo, i fatti su cui la parte ha giurato si considerano come pienamente provati, in modo tale da vincolare la decisione del giudice.

Quest’ultimo, infatti, dovrà dichiarare vittoriosa (sull’intera domanda o su singole questioni) la parte che ha giurato e soccombente la parte che ha deferito il giuramento, o viceversa, se la prima ha rifiutato di giurare.

Va precisato che la parte cui è deferito il giuramento è portata a dire la verità, oltre che per ragioni morali, anche per evitare di incorrere in responsabilità penale (art. 371, c.p.).

A livello di procedura, le modalità per avvalersi di questo mezzo di prova sono previste dall’art. 233, c.p.c.

Secondo tale articolo, il giuramento decisorio può essere chiesto dalla parte interessata in ogni stato del procedimento ma non oltre l’udienza di precisazione delle conclusioni. Esso deve:

  • essere richiesto con dichiarazione orale fatta in udienza dalla parte personalmente o dal suo avvocato munito di mandato speciale; oppure
  • in un atto processuale, purché sottoscritto dalla parte personalmente o dal suo avvocato munito di mandato speciale;
  • essere formulato in articoli separati, in modo chiaro e specifico.

Il giuramento suppletorio, a differenza del primo, è invece deferito d’ufficio dal giudice quando ritiene necessario integrare la prova dei fatti fino a quel momento raggiunta, in quanto ritenuta insufficiente per decidere la causa.

Il giuramento estimatorio, infine, è una specie di giuramento suppletorio e serve al giudice per stabilire il valore della cosa domandata quando risulta impossibile stabilirlo altrimenti.

L’ispezione

Con questo mezzo di prova il giudice può ordinare alle parti e ai terzi di consentire, sulla loro persona o sulle cose in loro possesso, le ispezioni che appaiono indispensabili per conoscere i fatti di causa.

Ciò può avvenire alle seguenti condizioni:

  • che l’ispezione possa compiersi senza grave danno per la parte o per il terzo;
  • che essa non debba costringerli a violare uno dei segreti previsti dal Codice di procedura penale (segreto professionale, d’ufficio o di Stato).

Se la parte cui è rivolto l’ordine di ispezione rifiuta di eseguirlo senza giusto motivo, il giudice può da questo rifiuto desumere argomenti di prova, così come avviene per l’interrogatorio libero.

Se, invece, a rifiutare l’ispezione è il terzo, il giudice lo condanna a una pena pecuniaria da 250 a 1500 euro.

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