Dalla crisi al successo: il caso Lego è una lezione brutale (e brillante) su cosa significa davvero risanare un’azienda.
Nel 2004, Lego perdeva 400 milioni di dollari. Un marchio storico, amato da generazioni, che stava letteralmente sgretolandosi: prodotti fuori fuoco, costi fuori controllo, strategia confusa. Un disastro industriale annunciato.
Eppure, vent’anni dopo, è diventata la prima azienda di giocattoli in Europa, più redditizia di molti colossi tech, con una fanbase che va dai bambini ai collezionisti adulti. Non per caso, ma per visione, disciplina e coraggio manageriale.
Oggi sono molte le big tech che tagliano, accorpano e tornano all’essenziale. Lego lo ha fatto oltre 20 anni fa. Ha smesso di rincorrere i trend e ha scelto cosa tenere e cosa lasciare.
Il suo è un caso studio da manuale, non solo per la portata del rilancio, ma per come è stato fatto: con lucidità, visione e scelte nette. Quello che resta da capire è questo: cosa ha davvero salvato Lego? Ecco la sua storia.
Lego nel 2004: una crisi profonda
I numeri non lasciavano spazio all’interpretazione: nel 2004, Lego segnava una perdita operativa di circa 400 milioni di dollari. Non era un inciampo momentaneo. Era il culmine di anni di errori strategici.
Il problema? Aveva smesso di credere nei mattoncini.
Lego aveva cercato di diventare “tutto”: parchi a tema, videogiochi, orologi, abbigliamento. Tutto tranne quello che la rendeva unica. I set tradizionali, core del suo DNA, erano passati in secondo piano. E intanto, i conti esplodevano: i costi di produzione salivano, le vendite calavano, e i magazzini si riempivano di linee poco richieste e poco coerenti.
La concorrenza, intanto, si muoveva veloce. Hasbro e Mattel spingevano sulle licenze e sull’entertainment. I bambini scoprivano la PlayStation. E Lego? Persa tra progetti scollegati e una governance familiare in crisi di leadership.
La svolta: chi ha salvato Lego e come
Il cambiamento arriva con Jørgen Vig Knudstorp, un trentacinquenne ex consulente McKinsey, che nel 2004 diventa il primo CEO esterno alla famiglia Kristiansen.
Inizia una cura drastica: tagli ai costi, vendita dei parchi Legoland, stop a linee non profittevoli, e ritorno al core business: i mattoncini. Lego chiude fabbriche inefficienti, esternalizza la produzione (in Ungheria e Repubblica Ceca), e punta su design e ingegneria interna. Ogni nuova linea deve essere redditizia entro un anno. Fine delle scommesse creative senza copertura.
Knudstorp non è un uomo da slogan. È un CEO che riporta il controllo operativo, ridisegna il processo decisionale e riporta al centro la cultura aziendale danese, basata su qualità, design e collaborazione.
La rinascita del brand: cosa ha funzionato davvero
Lego smette di inseguire il futuro e inizia a costruirlo, letteralmente. Il mattoncino diventa la base per nuovi universi narrativi.
L’alleanza con franchise globali come Star Wars, Harry Potter e Marvel esplode in termini di vendite. Ogni set diventa una storia da costruire. Non solo per bambini. Lego scopre (e coltiva) il pubblico adulto: i cosiddetti AFOL (Adult Fans of Lego). Nascono le linee Architecture, Technic, Ideas.
Il marketing cambia tono: meno spot, più community, storytelling, esperienze. I fan diventano co-creatori: chi ha inventato il set Central Perk di Friends è un utente come tutti, premiato con royalties.
I numeri del successo: Lego oggi
Nel 2025, Lego è la prima azienda di giocattoli in Europa per fatturato e tra le prime al mondo. Il 2024 si è chiuso con 9,9 miliardi di euro di ricavi e un utile netto di 2,1 miliardi, con margini da envy di Wall Street.
Ha superato Mattel e Hasbro non solo nei numeri, ma nell’immaginario collettivo. E mentre i competitor lottano con la digitalizzazione, Lego ha già integrato App, AR e robotica nei suoi set educativi (Lego Boost, Spike Prime).
In parallelo, spinge sull’impatto ambientale: packaging in carta, mattoncini bio-based in fase di test, investimenti in impianti carbon neutral.
La lezione di Lego
Il caso Lego è un esempio da manuale di ristrutturazione aziendale. Ha evitato l’errore di “diversificare per disperazione” e ha dimostrato che il focus può essere una strategia di crescita, non un limite.
Ha funzionato perché ha semplificato, ha tagliato, ha avuto il coraggio di dire no. In un’epoca in cui le aziende rincorrono tutto (NFT, AI, Web3), Lego ha puntato sull’essenziale, con coerenza.
È anche una lezione di governance: la famiglia Kristiansen ha avuto l’intelligenza di farsi da parte nel momento critico, pur restando azionista e garante della visione a lungo termine.
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