Licenziata per accuse di razzismo, ora fa causa alla banca: la frase che le è costata il posto

Simone Micocci

15 Luglio 2025 - 17:50

Puoi essere licenziato per razzismo, anche in Italia. Ecco cos’è successo a Londra e quali sono le regole nel nostro Paese.

Licenziata per accuse di razzismo, ora fa causa alla banca: la frase che le è costata il posto

Chi è razzista può essere licenziato perché compromette l’immagine dell’azienda.

O almeno è quanto ritiene la Citibank di Londra, che ha licenziato una dipendente per le frasi razziste e offensive pronunciate durante un incontro di lavoro. La donna ha quindi deciso di fare causa alla banca, ritenendo il licenziamento illegittimo, soprattutto alla luce delle proprie condizioni di salute. In attesa di un punto definitivo in tribunale, la storia (che risale al 2023) sta scuotendo profondamente l’opinione pubblica, dividendo il Regno Unito.

Da una parte, ci sono i diritti dei lavoratori in merito alla conservazione del posto di lavoro, in particolare quando hanno problemi di salute. Dall’altra, la lotta alla discriminazione e il diritto di ogni essere umano di essere trattato con giustizia ed equità. L’argomento è quindi di grande interesse anche fuori dai confini britannici, soprattutto considerando la sensibilità collettiva su temi come le discriminazioni, il razzismo e i licenziamenti.

È quindi utile approfondire la vicenda e soprattutto come potrebbe svilupparsi in Italia, secondo l’ordinamento nazionale.

Licenziata per razzismo, la frase che le è costata il posto

La protagonista di questa storia è un’ex dirigente della Citibank londinese di 55 anni all’epoca dei fatti, in servizio da 12 anni presso la banca e presumibilmente senza macchie nella carriera, almeno fino al giorno del licenziamento.

La donna ha partecipato a un colloquio di lavoro interno per assumere un nuovo ruolo all’interno della filiale, in modalità da remoto. Dovendo rispondere di un precedente progetto non andato a buon fine, la dirigente avrebbe addossato la colpa ai colleghi. “Il progetto è fallito perché stavo lavorando con un team di indiani” avrebbe detto la lavoratrice, prima di pensare che a svolgere l’intervista era proprio un collega indiano. Così, peggiorando la situazione, avrebbe aggiunto “Senza offesa per te, Kapil, ma sai com’è lavorare con gli indiani: è un incubo”. Questa frase le è costata il posto di lavoro, in quanto la banca ha avviato un’indagine interna (presumibilmente potendo controllare le dichiarazioni rese in videoconferenza) e licenziato la donna un mese dopo per cattiva condotta.

Come anticipato, ora l’ex dirigente si è rivolta al tribunale convinta di aver subito ingiustamente questo provvedimento. Il team legale che la supporta, in particolare, ritiene che le affermazioni della donna possano essere attribuite alla menopausa e al cosiddetto long Covid, che avrebbero compromesso temporaneamente le funzioni cognitive della donna, insieme all’elevato stress. In merito non ci sono vere e proprie correlazioni mediche di supporto, ma l’Equality Act inglese considera la menopausa un periodo protetto, limitando rigidamente i licenziamenti.

La banca, al contrario, crede di aver condotto un’indagine “equa e imparziale”, adottando un provvedimento commisurato alla violazione. Il team legale di Citibank rifiuta l’idea che le condizioni di salute della donna abbiano influenzato le sue parole e difende l’immagine della banca, attenta ai temi sociali e all’uguaglianza. Di fatto la banca ha una politica di condotta intransigente sulle discriminazioni e l’odio, questo non è il primo licenziamento di questo genere. Nel 2023, per esempio, un’impiegata era stata licenziata per gli insulti antisemiti pubblicati sui social network.

Cosa sarebbe successo in Italia

A livello giuridico, una simile storia potrebbe prendere vita anche in Italia, dove peraltro la menopausa non comporta limiti ulteriori al licenziamento. Il dipendente che pubblicamente ha condotte razziste, discriminatorie e offensive lede l’immagine e la reputazione dell’azienda, potendo essere licenziato con giusta causa. A confermarlo c’è la sentenza n. 6543/2024 della Corte di Cassazione, che conferma il licenziamento di un lavoratore accusato di aver danneggiato l’azienda attraverso insulti e offese pubblicati sui social network, peraltro fuori dall’orario di lavoro.

La libertà di opinione e manifestazione del pensiero non deve infatti mai superare i limiti del decoro e dell’educazione civica, soprattutto quando ci si rivolge a una platea così vasta come quella del web. In caso contrario, il dipendente riconducibile all’azienda può danneggiarne la reputazione e violare le regole di condotta, rendendo così giustificato il licenziamento.

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